13 gennaio 2014

BRUCE SPRINGSTEEN "HIGH HOPES" - LA NOSTRA RECENSIONE

Ad aprire l'anno delle nuove uscite discografiche ci ha pensato questa volta Bruce Springsteen con "High hopes", il diciottesimo album in studio della sua ormai ultra quarantennale carriera. C'è sempre molta attesa per ogni nuova pubblicazione del "Boss" da parte della moltitudine di fan italiani che assipeano le platee di ogni suo concerto in Italia ed in giro per l'Europa. Questa volta ho notato invece più freddezza nell'attesa, più distacco. Una sorta di pregiudizio (sovente negativo) si è sparso tra i fan per un disco che si sapeva già da tempo essere composto in parte di cover,  in parte di materiale già presentato live e di brani che erano rimasti fuori dagli album dell'ultima decade.
E' per questo che hovoluto aspettare qualche giorno prima di scrivere queste righe; ho voluto che i brani si sedimentassero un poco, ho voluto ascoltarlo per bene non solo qui in negozio ma anche nella quiete di casa e ho cercato di non farmi troppo influenzare dai primi sommari giudizi di chi lo aveva "ascolticchiato" in rete prima dell'uscita.
Dunque, pollice verso o pollice alzato? Diciamo pure pollice alzato: i giudizi, credo alquanto affrettati, che ho sentito in questi giorni mi sembrano un po' ingenerosi, per quanto anche da parte mia non manchino le puntualizzazioni e le critiche (alcune anzi abbastanza radicali e severe).
E partirei proprio dalla critica più grande che faccio ad " High hopes": la presenza spesso inutile e spesso sopra le righe di Tom Morello, chitarrista che non ho mai amato particolarmente e che comunque mi sembra veramente fuori dal contesto del mondo springsteeniano. Gli assoli tronfi e a volte decisamente "tamarri" che infarciscono alcune ottime composizioni (su tutte due perle del songwriting del Boss come "The ghost of Tom Joad" e "American skin")  non danno valore aggiunto ai brani ma, al contrario, rischiano spesso di togliere valore al risultato finale. Non riesco a capire come Springsteen possa essersi infatuato di un simile chitarrista quando ha "in casa" Little Steven e Niels Lofgren (oltre naturalmente a Bruce stesso, tuttora il migliore chitarrista della E Street Band).
Ora che mi sono tolto dalla scarpa il sassolino più ingombrante precediamo con il resto. Il disco contiene indubbiamente alcune composizioni di grande valore: oltre alle due già citate (che, sia chiaro, restano comunque due grandi pezzi) ci sono almeno altri 3 pezzi che non sfigurerebbero nella maggior parte degli album di Bruce degli ultimi 25 anni: la fresca e diretta "Frankie fell in love" che non a caso credo sia stata scelta come secondo singolo estratto dall'album e che potrebbe fare la sua migliore figura dal vivo; "This is your sword" che riprende i suoni "folk oriented" del precedenta album "Wrecking ball" e con un suono di chitarre assolutamente indovinato; "The wall", a mio giudizio la vera perla dell'album, una delicata ballad dove il piano e l'organo dominano su un testo tanto intenso quanto divinamente cantato. 
Le tre cover (che tutti i fan già conoscevano) hanno su disco una resa tutto sommato riuscita, soprattutto "Dream baby dream" dei Suicide (meno ipnotica di quella live del tour di "Devils and dust) e "Just like fire would" dei Saints, secca e diretta come un buon vecchio rock e dove Morello resta fortunatamente abbastanza defilato. Quella forse meno azzeccata è proprio "High hopes" (l'ennesimo errore nella scelta del singolo promozionale dell'album?), pezzo di suo non memorabile e per giunta appesantito dalla solita chitarra di Morello.
Bruce canta sempre al top ed è inutile nasconderlo: se la qualità musicale delle sue composizioni degli ultimi anni non può rivaleggiare con quella dei suoi anni epici e mitici, la sua voce col passare degli anni ha invece subito una evoluzione assolutamente positiva, guadagnando in colore, in espressività e in varietà. E anche in "High hopes" il livello delle esecuzioni vocali è a mio giudizio altissimo, soprattutto quando i toni si fanno più tenui o ci si avvicina al soul o al gospel.
Quello che, al di là di Morello, ancora non funziona è, come su molte delle sue ultime cose, l'iper produzione di molti brani, l'eccesso di cose che ci si vuole mettere dentro, questo suono a volte un po' indistinto e comunque sempre un po' "troppo" da cui Bruce fatica a liberarsi. Sarà perchè il mio sogno sarebbe quello di vederlo misurarsi con un classicissimo "power trio" con chitarra basso e batteria; sarà perchè non provo molta simpatia per le produzioni ed i produttori dei suoi ultimi lavori, ma spero proprio che prima o poi anche Bruce provi a ragionare (e quindi a registrare) per sottrazione e non per sovrapposizione.




Qui di seguito invece la recensione di Gianni Sibillia apparsa sul sito rockol.it e che, tra tutte quelle lette in questi giorni, è quella che mi pare più scevra da facili entusiasmi ed altrettanto facili condanne.




di Gianni Sibilla

Non c’erano grandi speranze per questo album, nonostante il suo titolo. Invece, sorpresa, Bruce Springsteen ha confezionato forse il suo disco più dritto e smaccatamente rock degli ultimi 10 anni, una raccolta omogenea nella disomogeneità.
Non c’erano “High hopes” a partire dall’annuncio della canzone portante, una cover già incisa negli anni ’90 e rispolverata nel tour australiano dello scorso marzo. A leggere la tracklist, poi: 12 brani, di cui altre due cover, in totale 4 canzoni già pubblicate e di cui 2 che sono praticamente delle auto-cover di brani molto noti (“The ghost of Tom Joad”, che diede il titolo all’album, e “American Skin (41 shots)”). Pronti, via con la critica preventiva: I fan hanno scatenato il loro lato più intransigente. Gli “hater” hanno rispolverato la loro teoria: dal vivo non si discute, ma Springsteen non azzecca un disco da secoli.
Ora, è chiaro che Springsteen ha abbondantemente superato il climax della sua produzione di studio anche se l’ultimo decennio ci ha regalato almeno due gioielli (“The rising” e le “Seeger Sessions”). Ma il peccato originario di “High hopes” è in realtà ascrivibile a “Wrecking ball”, che conteneva già due canzoni non inedite (la title-track e “Land of hope and dreams”) - scelta già al tempo accolta con scetticismo. Ed è altrettanto chiaro, come hanno notato i nostri cugini di Rockol.com, che nel mondo di Springsteen non si fanno i tour per promuovere i dischi, ma si fanno dischi per rimanere in tour: una regola orma valida per tutta l’industria, di cui il Boss è l’incarnazione più evidente.
Nonostante le sue origini, “High hopes” non è una raccolta raccogliticcia, anzi. E’ appunto un disco di rock onesto, diretto, senza fronzoli. Ha meno coesione narrativa - non ha un tema vero e proprio - meno politica e meno folk rock che in “Wrecking ball”. Il motivo di cotanto rock è Tom Morello, musa ispiratrice dell’album (l’idea di rispolverare “High hopes” è sua), presente a svisare con la sua chitarra in 8 canzoni su 12. Pure troppo, in certi passaggi: la sua iniezione di energia è indubitabile, ma in più di un’occasione i sui assoli acidi suonano un po’ lontani dal calore delle E Street Band - che è presente tutta, presente e passata: compresi Clarence Clemons e Danny Federici, visto che tra le canzoni sono presenti brani incisi nel decennio scorso e terminati oggi. Dato che si riflette anche nei crediti di produzione, divisi tra Brendan O’Brien (che ha lavorato con il Boss da “The Rising” fino a “Working on dream”) e Ron Aniello (“Wrecking ball”).
Il disco uscirà il 14 gennaio - anche in un’edizione limitata che comprende un DVD con l’intero “Born in the U.S.A.” suonato dal vivo a Londra. Proprio Amazon nei giorni scorsi ha messo (per errore?) in vendita il disco in MP3 per qualche ora. Ma andiamo con ordine.

“High hopes” canzone per canzone

“High hopes” - Una cover degli Havalinas già incisa e pubblicata negli anni ’90 in un EP allegato al VHS di “Blood brothers”, rockumentary sulla reunion della E Street Band. La nuova versione, la conoscete, è molto più energica, e presenta fin da subito il suono inconfondibile della chitarra di Morello. Il vero rimpianto è la presenza dei fiati: qua suonano benissimo (come dal vivo). Ma nel resto dell’album poi spariscono quasi del tutto.

“Harry’s place” - Una canzone dalle sessioni di “The rising”, non è difficile capire perché è rimasta fuori: parte con basso e sinth, con un suono cupo, quasi anni ’90 (ricorda certe cose di “Human touch”) - a raccontare una storia degna di un romanzo noir - la cosa più bella della canzone. La chitarra di Morello, aggiunta recente, si incrocia con il sax di Clarence Clemons.

“American skin (41 shots)” - I “41 colpi” sono i proiettili che raggiunsero un ragazzo afroamericano innocente che tirò fuori un portafoglio dalla tasca e venne freddato dalla polizia di New York, convinta si trattasse di una pistola. La canzone viene suonata dal vivo dal 2000 (venne inclusa anche nel “Live in New York” del 2001) e generò una polemica molto forte con la polizia locale quando venne proposta a New York. Ne girava già un’incisione di studio di una decina di anni fa mai pubblicata ufficialmente. Ma questa versione si apre con una di quelle ritmiche campionate spesso usate ultimamente, per poi aprirsi con la chitarra di Morello che domina fino alla fine, sul coro ripetuto ad libitum. Comunque una delle cose migliori scritte da Springsteen nell’ultimo decennio.

“Just like fire would” - Una cover della storica band australiana Saints, suonata una volta sola nel tour del continente oceanico. Si apre con chitarre e violino, sulla falsariga di “Waitin’ on a sunny day” (una delle canzoni centrali dell’ultimo tour) e diventa un rock dritto e vecchio stile, in cui la chitarra di Morello rimane in secondo piano, fino all’entrata della tromba nel finale. Nella sua semplicità è forse la cosa più bella del disco: molto fedele all’originale, ricorda anche molto John Mellencamp. Chapeau per aver rispolverato questo gioiello.

“Down in the hole” - La voce di Patti Scialfa, suoni cupi e percussioni, la voce filtrata di Springsteen introducono un brano che poi parte su un ritmo che ricorda moltissimo “I’m on fire”. Una delle canzoni completamente sconosciute di questo album, un rallentamento dopo la tripla accelerata iniziale, impreziosito da un bel duetto centrale tra il violino e l’organo di Danny Federici (scomparso nel 2008, ma la canzone è stata in larga parte incisa prima e prodotta da O’Brien).

“Heaven’s wall” - Un’altra canzone dritta, che si apre con un coro quasi gospel (“Raise your hand, raise your hand!), che poi diventa l’ossatura della melodia. Anche qua Morello si diverte con la sua chitarra, anche esagerando e appesantendo il tono leggero e divertito della canzone, dominata dalle voci e dal violino.

“Frankie fell in love” - Altro brano che parte come un rock dalle venature country: una semplice e dritta canzone d’amore, la più leggera di tutta la collezione, con un improbabile dialogo tra Albert Einstein e William Shakespeare sull’amore.

“This is your sword” - Una canzone che riprende le metafore bibliche di “Heaven’s wall”, aprendosi con qualche secondo di cornamuse che poi si piazzano in sottofondo lasciando spazio alle chitarre. Melodia e andamento lineare - la canzone che ricorda più le atmosfere folk-rock di “Wrecking ball”

“Hunter of invisible game” - Archi e chitarra acustiche per una canzone che ha il rimo di un valzer: un’altra pausa dopo il veloce trittico centrale, un’altra canzone (come le precedenti tre) completamente inedita.

“The ghost of Tom Joad” - La canzone più nota di tutte - fu la title track del disco “solo” del ’95. Viene da tempo suonata in questa versione rock totalmente diversa da quella minimale e acustica originaria e spesso Tom Morello si faceva trovare sul palco, tanto che il duetto venne immortalato in un EP digitale dal vivo qualche anno fa. Questa è una versione travolgente, rabbiosa, in cui Morello (che canta una strofa) dà il meglio di sé. Ma anche il peggio, come quando si fa prendere la mano dall'assolo, rispolverando suoni da Rage Against The Machine... La E Street Band, più solida che mai, fa il resto.

“The wall” - Canzone suonata dal vivo in quattro occasioni, racconta la storia di un vecchio amico che scompare in Vietnam: una delicata ballata per chitarra acustica, piano e organo con assolo di tromba finale. Toccante.

“Dream baby dream” - Brano di chiusura del tour di “Devils & dust”, dove veniva cantata semplicemente mandando in loop voci e organo a pompa; è una cover dei Suicide, già pubblicata sia dal vivo in un EP; in questa nuova versione è prodotta da Ron Aniello - già diffusa qualche settimana fa in un toccante video di ringraziamento ai fan. Più suonata e meno cupa della versione originale, meno ipnotica della versione dal vivo, ma non meno affascinante di entrambi.