27 luglio 2012

CHRIS ROBINSON "BIG MOON RITUAL"

CHRIS ROBINSON
"BIG MOON RITUAL"
Tutti lo conosciamo come la grande voce di uno dei gruppi che ha tenuto vivo negli anni 80 e 90 il fuoco sacro del southern-rock, i mitici Black Crowes. Qui Robinson si diverte a rimescolare le carte confezionando un disco sempre rock ma con chiarissime influenze psichedeliche, da California frichettona anni '60, con echi di Grateful Dead e di Pink Floyd.
Un disco assolutamente da avere, e se non vi fidate di me leggetevi questa recensione del sito "Rootshighway".

 
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 Chris Robinson Brotherhood
BIg Moon Ritual
[
Silver Arrow  
2012]
www.chrisrobinsonbrotherhood.com
File Under: california dreamin'

di Gabriele Gatto (02/07/2012)
Che Chris Robinson fosse un inguaribile 'fricchettone' è un dato di fatto che ormai dovrebbe essere risaputo. Che fosse però così fricchettone ed anacronistico forse non se lo aspettava nessuno. Così, chiusa (temporaneamente, speriamo tutti) l'avventura dei Black Crowes, il frontman della Georgia si lancia anima e cuore in questa nuova avventura solista, realizzando il terzo disco della carriera lontano dal fratello Rich. Forse, però, non dovremmo neppure definirlo come un disco solista. Già dai due album del 2003 e del 2004 (l'altalenante New Earth mud e l'esaltante This Magnificent Distance) Robinson si era circondato di una vera e propria band, ribattezzata New Earth Mud, e non solamente da un gruppo di turnisti scelti per l'evenienza. Allo stesso modo, per questo terzo episodio, Chris ha radunato intorno a sé un collettivo attorno al quale ha costruito le atmosfere di Big Moon Ritual, reclutando il cantautore e valente chitarrista Neal Casal (peraltro autore di uno dei più grandi dischi di cantautorato americano anni '90, quel Fade Away Diamond Times che ogni persona dotata di orecchie funzionanti e di un minimo di cuore dovrebbe possedere), il bassista Mark Dutton, lo stupendo batterista blues George Sluppick (già con JJ Grey & Mofro) e dulcis in fundo uno dei protagonisti dell'epopea Crowesiana, il tastierista Adam McDougall, che risulta uno degli elementi più caratterizzanti del suono di questa nuova band.

Se con il citato This Magnificent Distance Chris Robinson aveva inteso dare sfogo alla sua indole più cantautorale e diretta, oggi fate attenzione: qui siamo agli esatti antipodi. Basterebbe vedere la tracklist: sette canzoni per oltre sessanta minuti di musica, e neppure un brano sotto i sette minuti. E, soprattutto, durante le sessions di registrazione, Chris e soci dovevano avere affissa in studio la fotografia di Jerry Garcia e dei Grateful Dead, il vero afflato ispiratore di questo disco, che aleggia su tutte le canzoni e che promana fin già dalla copertina, misteriosa e quasi mistica. Sono le atmosfere liquide tipiche della California più psichedelica degli anni Sessanta a farla da padrone, con la chitarra di Neal Casal, non un fulmine di guerra ma di certo un musicista di gran gusto, e le tastiere completamente anacronistiche di MacDougall a dettare i tempi (sentire l'introduzione di Reflections in a Broken Mirror per credere…suoni che sembrano uscire da The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd) in un percorso sonoro che abbraccia le divagazioni rootsy degli ultimi due album dei Black Crowes dilatandole a dismisura e liquefacendole in un torrenziali cascate chitarristiche à la Garcia (vedere Rosalee e l'apertura di Tulsa Yesterday).

E poi c'è la voce di Robinson, probabilmente uno dei più grandi interpreti della storia del rock'n'roll a fare la differenza: seppure priva della dirompente carica soul che caratterizzava sia le sue interpretazioni con i Black Crowes sia quelle dei primi due album solisti, riesce a caratterizzare con passaggi languidi ed improvvisi sussulti le canzoni del disco. Clou della sua interpretazione è senza dubbio Beware or Take Care, tutta sospesa fra atmosfere lunari ed improvvisi cambi di passo. Insomma, un disco del tutto inaspettato ed affascinante, magari non privo di difetti (un secondo chitarrista al posto di Chris, che suona la ritmica in tutti i brani, avrebbe di certo giovato) ma sincero specchio di uno spirito hippy che ha pochi equivalenti al giorno d'oggi. E si spera che qualche anima pia porti la barbuta Chris Robinson Brotherhood in Italia, perché non vi è dubbio che quella dal vivo sia la cornice ideale per godersi brani come questi.

21 luglio 2012

OF MONSTERS AND MAN

OF MONSTERS AND MAN
"My head is an animal"
E' uno dei dischi più interessanti degli ultimi tempi: sono islandesi ma non sono assimilabili ad artisti di quel paese come Bjork o i Sigur Ros. Hanno un approccio tra folk e rock e se devo fare dei paragoni farei riferimento soprattutto agli Arcade Fire, ai Mumford & Sons e a certe cose dei National. Questa che segue è la recensione del loro album di debutto fatta dal sito "rockol.it".



Arriviamo con leggero ritardo su questo disco, ma che importa. Quando ti capita tra le mani un bel lavoro è giusto parlarne, anche se è uscito ufficialmente due mesi fa.
E' il caso di “My head is an animal” degli Of Monsters and Men. La band islandese è nata nel 2009 ed è emersa in patria partecipando ai due più importanti festival della nazione (Músíktilraunir e Iceland Airwaves), trasformando la propria line-up da quartetto a sestetto nel giro di due anni. I ragazzi, una donna e cinque uomini, vengono notati negli Usa, dove la Universal decide di scritturarli per il loro album di debutto.
Il lancio avviene con il singolo “Little talks” (che attualmente gira moltissimo anche nelle radio italiane), un pezzo perfetto per la stagione estiva, con fiati e coretti in primo piano e le voci di Nanna e Ragnar che si intrecciano. Non a caso arrivano fino alla quinta posizione dei singoli alternative più venduti negli States. Gli Of Monsters and Men sono indubbiamente andati a lezione dagli Arcade Fire, dai quali hanno imparato molte cose (l'uso dei cori, l'utilizzo di numerosi e svariati strumenti, i cambi di tempo e l'alternarsi della voce femminile/maschile), aggiungendoci però una carica più positiva e solare.
Il loro primo disco contiene più di una perla, brani che quando ricalcano la formula luminosa del singolo hanno la capacità di accendere e mettere di buon umore (come in un altro potenziale singolo “Mountain sound” o “From Finner”) oppure riescono ad essere delle cavalcate caratterizzate da cambi di atmosfere e di carattere (e qui si affaccia prepotentemente il fantasma di Win Butler e soci). E' il caso di veri e propri inni come “King and lionheart” ed i suoi saliscendi indie-pop, della splendida “Six weeks” e delle sua atmosfere chiaro-scure in crescendo o “Lakehouse” e la sua esplosione finale con fiati e cori in grande spolvero.
Infine ci sono ballate che per delicatezza ricordano i defunti Moldy Peaches di Adam Green e Kimya Dawson, episodi ben rappresentati da “Love love love” e dalla conclusiva “Yellow light”.
“My head is an animal” non è un disco perfetto e le pecche si possono riscontrare nell'eccessivo numero di ballate (un paio in meno non avrebbero guastato) e nello smodato uso di cori e “la la la” che sono simpatici quanto si vuole, ma dopo un po'...
Sono dettagli che comunque non inficiano un ottimo disco d'esordio, derivativo è vero, ma realizzato con gran classe e personalità. Gli islandesi dimostrano di saperci fare anche con il pop e siamo quasi sicuri che tra qualche tempo li ritroveremo a cantarci di mostri e di uomini dentro a grandi arene. Il potenziale c'è tutto.

(Ercole Gentile)

18 luglio 2012

SERJ TANKIAN "HARAKIRI"


SERJ TANKIAN
"HARAKIRI"
Terzo disco solista per la voce dei 
SYSTEM OF A DOWN
uno dei gruppi più influenti del metal moderno.
E anche da solista Tankian conferma tutta la sua vena creativa, come si deduce anche da questa bella recensione del sito
outsidersmusica.it


Harakiri è il terzo album solista di Serj Tankian, già voce dei System Of A Down, nu-metallers pluridecorati dei primi anni 2000. Affrancatosi ormai da tempo dall’ingombrante ombra della band madre (Elect The Dead è del 2007, il sinfonico Imperfect Harmonies del 2010), Serj torna finalmente a quello che sa fare meglio, e che, indubbiamente, interessa di più al suo pubblico: brani con entrambi i piedi ben piantati nel rock moderno e contemporaneo, con aperture al metal, al punk, e occasionali divagazioni elettroniche. Da artista sensibile, acculturato e complesso qual è (si ricordano il progetto etno-elettronico Serart, con Arto Tunçboyacıyan, e l’impegno sociale con l’Axis Of Justice, organizzazione non-profit fondata assieme a Tom Morello), Serj Tankian presenta il suo nuovo lavoro non come una mera raccolta di canzoni, ma come «una fotografia nitida che immortala il ruolo della politica nelle nostre vite, l’economia frustrata e gli scempi ambientali che tessono la trama della società odierna ».
In questo senso il titolo Harakiri (lo squarciamento del ventre del suicidio rituale tradizionale giapponese) è inteso come il suicidio etico-sociale che l’umanità sta compiendo, verso se stessa, verso l’ambiente e il mondo animale (come denunciato proprio nelle lyrics della title-track). Se per quanto riguarda il lato tematico-concettuale l’album è dunque presto inquadrabile, e ben approfondibile, a livello prettamente musicale il buon Serj ci presenta un melting-pot stilistico piuttosto vario e composito, con alcuni dei suoi migliori brani di sempre, come ad esempio la melodica opener cornucopia (la nuova Elect The Dead?), oppure la divertente Ching Chime, che riporta alla mente l’estro interpretativo Sugar-style. Altre composizioni senza dubbio efficaci sono Occupied Tears e Weave On, mentre si riscontra qualche velleità sperimentale di troppo in Deafening Silence, con un insistito arrangiamento elettronico che non si armonizza più di tanto con la natura tipicamente rock del lavoro (Figure It Out), nella quale spicca il lavoro di chitarra di Dan Monti. Va altresì sottolineato come gran parte del processo compositivo dell’album sia stato svolto dal solo Serj con l’utilizzo dell’iPad (proprio come Björk su Biophilia), ribadendo la grande capacità e autonomia creativa di un artista che sta indubbiamente vivendo un periodo di notevole fertilità. E’ infatti notizia recente che, successivamente ad Harakiri, Tankian abbia già pronti un’intera sinfonia (Orca), un album jazz (Jazz-Iz-Christ) e un lavoro elettronico, assieme a Jimmy Urine dei Mindless Self-Indulgence (Fuktronic). L’inconfondibile voce dell’artista di origini armene, assieme a Davis, Keenan e Draiman, uno dei pochi veri talenti canori emersi in ambito crossover, fa ovviamente la parte del leone lungo tutto la release, alimentando alla grande l’entusiasmo e la piacevolezza dell’ascolto. In conclusione Harakiri è, allo stato attuale, il disco solista di Tankian più completo e soddisfacente, e fotografa un artista perfettamente a suo agio sia come interprete che come compositore, libero di spaziare in lungo e in largo, nei vari generi del mare magnum della musica contemporanea, preservando la sua identità e progredendo in percorso coerente e di successo.



10 luglio 2012

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