27 settembre 2011

Wilco - The Whole Love: la recensione di Ondarock









WILCO
The Whole Love

(Dbpm) 2011
alt-rock, folk-pop


Lo diceva nientemeno che Michelangelo: l'arte è svelare la bellezza, scavare la pietra per liberare l'immagine che racchiude. Jeff Tweedy gli fa (più modestamente) eco a proposito della musica degli Wilco: "Gli scultori eschimesi prendono un pezzo di pietra e cominciano a lavorarlo senza sapere che animale contenga. Finché a un certo punto gli diventa evidente che stanno facendo un tricheco o un caribù. Quello che cerco di descrivere è una cosa del genere: ti perdi lungo il processo creativo e all'improvviso qualcosa comincia ad emergere".
Potremmo chiamarla l'"arte del quasi", come il titolo del brano che fa da prologo a "The Whole Love": un continuo tendere alla bellezza per approssimazioni progressive. A volte capita di avvicinarsi all'assoluto, come nei momenti di grazia di "Yankee Hotel Foxtrot" e "A Ghost Is Born". A volte può succedere di perdersi nell'azzurro del cielo o di fermarsi a giocare con le gobbe di un cammello. Ma quello che conta è sempre la tensione ideale, perché quando si parte da una formula o da una ricetta si è già nell'anticamera della maniera.

Da una band come gli Wilco non c'è più niente da aspettarsi, si dice in giro. Soprattutto tra le fila dei più fieri detrattori di "Wilco (The Album)". L'accoglienza riservata a "The Whole Love" sembra però smentire le profezie di pensionamento anticipato. Spesso cadendo nell'eccesso opposto e finendo per dimenticare i punti di contatto tra due dischi che preferiscono entrambi le sfaccettature al marmo grezzo. C'è un punto, però, su cui non è difficile concordare: "The Whole Love" è il capitolo più solido della band americana dai tempi di "A Ghost Is Born".
Nei dischi degli Wilco, a detta di Tweedy, il primo brano ha la reputazione di essere quasi sempre quello che definisce le coordinate. Proprio per questo, l'inizio di "The Whole Love", affidato ad "Art Of Almost", ha l'intento più o meno dichiarato di confondere le idee: un flettersi di pulsazioni più radioheadiane che mai, che si dispiegano su vapori di mellotron fino a deragliare nella più classica sfuriata elettrica di Nels Cline. "Una sorta di canzone atmosferica come si potrebbe sentire in "Tonight's The Night" di Neil Young", la definisce Tweedy, giocando più sulla suggestione che non sulla lettera. Spiazzante, sì, ma fino a un certo punto, visto che quantomeno dai tempi di "Spiders (Kidsmoke)" è ormai una consuetudine per gli Wilco inserire nei loro album un brano dallo spirito più audace. Un episodio isolato, insomma, un incastro concettuale che rimanda alle geometrie della copertina di Joanne Greenbaum.

Tocca allora al primo singolo, "I Might", dettare il clima del disco, con una sarabanda di chitarre e tastiere in cui fa capolino addirittura un sample di "T.V. Eye" degli Stooges: "Avrei voluto riuscire a cantare "brother" come Iggy Pop", spiega Tweedy, "ma visto che non ce l'ho fatta abbiamo chiamato la cavalleria". Quel senso di leggerezza che faceva levitare i brani di "Yankee Hotel Foxtrot" incontra il gusto della melodia di "Summerteeth", ed ecco sbocciare il power-pop a colori sgargianti di "Born Alone" e "Dawned On Me". L'aria si fa più solare ("Get Well Soon Everybody", non a caso, era il primo titolo ipotizzato per l'album) e persino i chitarrismi firmati Nels Cline mostrano di saper trovare un nuovo equilibrio.
Ma "The Whole Love", chiamato a inaugurare l'etichetta discografica appena fondata dagli Wilco, è un disco dall'anima duplice. Un disco pensato in origine come un doppio album, o addirittura come una coppia di album gemelli: "uno più languido, una sorta di country-folk atmosferico, l'altro molto più esuberante". Così, "Rising Red Lung" si srotola su un picking delicato, mentre il sipario di archi di "Black Moon" acquista il senso drammatico di certe pagine del Beck di "Sea Change".

A fare da collante è un ecumenismo pop capace di conciliare il senso estatico di "Sunloathe" (Brian Wilson sognato con gli occhi di Jason Lytle) e la svagatezza ragtime di "Capitol City". Certo, "The Whole Love" non sfugge ai momenti risaputi, come nella ruvidezza chiassosa di "Standing O". Ma il punto nevralgico del disco è alla fine, nei dodici minuti ipnotici di "One Sunday Morning (Song For Jane Smiley's Boyfriend)". L'ispirazione, come suggerisce il titolo, viene da una conversazione con il compagno della scrittrice californiana Jane Smiley. Ma il respiro delle parole è universale: un padre, un figlio e il dramma del loro rapporto. Cercando il segreto di quella faticosa comunicazione di sé chiamata paternità: non l'imposizione di un'idea, ma un'instancabile introduzione alla realtà. "What I learned without knowing / How much more I owe than I can give".
La vocazione cantautorale di Tweedy non si era mai intrecciata così intimamente con l'intraprendenza dei suoi compagni d'avventura come in questo lungo commiato. Un dipanarsi di sussurri in cui ogni strofa rivela una nuova tessitura: ora accarezzata dal pianoforte, ora venata di arpeggi, ora punteggiata di glockenspiel, con un tono crepuscolare che evoca le ombre degli Yo La Tengo di "And Then Nothing Turned Itself Inside-Out". "Più suonavamo", racconta Tweedy, "più sembrava che qualche incantesimo fosse stato lanciato. Sentivamo semplicemente di stare partecipando a qualcosa di meraviglioso. Uno di quei momenti per cui vive un musicista, in cui ogni cosa scompare e ci si si trova radicati nell'istante". Il fraseggio, alla fine, si dissolve sospeso. Ma potrebbe anche durare per sempre. L'eternità è nell'istante.

24 settembre 2011

St. Vincent - Strange Mercy: la recensione di Ondarock

 

St. Vincent

Strange Mercy

(4ad) 2011
di Simone Coacci



Dopo i corsi accademici nel prestigioso Berklee College Of Music e l'apprendistato nelle file dei Polyphonic Spree e della piccola comune live di Sufjan Stevens, Annie Clark ha dato una svolta alla propria giovane carriera nel 2007, con la pubblicazione, a nome St. Vincent, del suo album manifesto e rivelazione "Marry Me". Un progetto che ha ribadito tutte le sue potenzialità e i suoi enormi margini espressivi col successivo "Actor", incoronando l'autrice con un successo di critica e pubblico di dimensioni ragguardevoli (ne fa fede anche il novantesimo posto a Billboard), considerata l'estrazione indie e l'estrema ricercatezza della sua proposta musicale.
Il completamento di questa ideale trilogia è affidato a "Strange Mercy", opera che risente fortemente dell'impronta del suo predecessore, ma sottolinea ancora di più il contrasto tra l'architettura pop barocca e broadwayana e il substrato arty e post-punk, sia nella scrittura che negli arrangiamenti.

Accompagnata, fra gli altri, da musicisti di grande levatura come Bobby Sparks (moog, clavinet, wurlitzer), il batterista dei Midlake Mackenzie Smith, il violinista Daniel Hart, il tastierista Brian LeBarton (già fondamentale collaboratore dell'ultimo Beck), la Clark pone l'accento sui valori di produzione (i suoni più elaborati, sintetici, stratificati, la voce spesso rarefatta e schermata), sempre affidata a John Congleton, e sull'incidenza delle chitarre, in un tripudio di effetti e distorsioni che non scade mai nel gratuito, e dei contrappunti elettronici (groove, beat, drum machine).

L'originalità dei brani e la qualità degli spunti di melodici, d'altronde, sembrano ancora una volta perfettamente in grado di reggere l'ambizioso lavoro sulla sovrastruttura. Come chiarisce subito l'opener "Chloe In The Afternoon", a tratti bjorkiana nel giocare sulle dissonanze fra il cantato acuto, le chitarre spigolose, i pattern di synth e i battiti irregolari. Sui groove elettronici puntano forte anche "Cruel", con un giro quasi disco-wave su cui la Clark cesella flautata e solenne nel ritornello, e "Historical Strenght" nel suo palpitante barocchismo sintetico. Viceversa, l'uso sperimentale delle chitarre la fa da padrone in "Northern Lights" (scabre e asperse di ruggine prima del crescendo finale) e nella bellissima "Surgeon", coi melismi della prima parte, ariosa e melodica, che si fa via via più febbricitante fino a incendiarsi nella coda stordente e allucinata, quasi krauta.

E se "Cheerleader" alterna l'amarezza impalpabile della strofa con gli staccati falcianti del ritornello, "Neutered Fruit" si distende su un mood simil-lounge/downtempo, vivacizzato da fantasmagorie vocali e strie corali. Sul versante più classicheggiante fanno bella mostra di sé brani come la title track crepuscolare e sussurrata (a parte gli equilibrismi del chorus), la chitarra liquida e notturna, la drum machine che punteggia, il romanticismo elegiaco di "Champagne Year", attraversata da cortine di moog e rivoli di bleep elettronici, "Dilettante" che comincia come un'aria alla Andrew Lloyd Webber e viene poi straniata e perturbata dalla ritmica minimale e dalle chitarre sature, la teatralità orientale e le evanescenze orchestrali di "Year Of The Tiger".
Con "Strange Mercy" St. Vincent conferma lo spessore della sua ricerca musicale e una costante maturazione dal punto di vista della composizione, anche se, pur in un quadro complessivo di grande apprezzamento, col passare del tempo (e degli ascolti) emerge un po' di nostalgia per la freschezza obliqua e un po' naif degli esordi. Va detto, però, che è un dettaglio che può facilmente passare in secondo piano.

23 settembre 2011

Jimi Hendrix - Winterland: la recensione di Buscadero



 

THE JIMI HENDRIX Experience
Winterland
****
di Paolo Caru'
Winterland !!!
Finalmente.
Ogni fans che ama e conosce Jimi Hendrix non può non essere felice.
I concerti del Winterland di San Francisco ( 10, 11, 12 Ottobre 1968, due concerti per sera ) sono considerati tra i più belli in assoluto del mancino di Seattle.
Negli anni ottanta la Rykodisc aveva edito un CD, Live at Winterland, che dava una idea del valore di quei concerti.
Nulla a che vedere però con questo cofanetto : quattro CD, che coprone quasi interamente le sei serate, con una qualità audio splendida.
Kramer me lo aveva detto, nell'intervista di alcuni mesi fa, che stava lavorando a questi nastri e che erano magnifici.
Ma non pensavo che fossero così belli.
Jam session a non finire, versioni epocali ( ce ne sono due di Like a Rolling Stone di Bob Dylan che arrivano a dodici minuti l'una e che, da sole, valgono il prezzo del box ).
Ci sono canzoni che raramente sono apparse in versioni dal vivo : Killing Floor, Tax Free, Little Wing, Manic Depression.
I sei concerti sono stati più volte bootlegati, ma con una qualità audio raramente sopra la sufficienza, ora invece si sentono come se fossero stati registrati ieri.
In poche parole, questo è IL CONCERTO DAL VIVO di Hendrix, uno dei più belli, ma vista la qualità, sia del suono che della performance, penso sia il live definitivo.
Dicevo di Like a Rolling Stone.
Il famoso brano di Dylan aveva avuto una versione superba a Monterey, ma queste due sono di gran lunga superiori.
E che dire di Killing Floor, un blues devastante firmato Howlin' Wolf, dove Jack Casady dei Jefferson Airplane appare al basso : Jack, con Jimi e Mitch Mitchell, fa una versione incredibile.
Hey Joe appare tre volte, una meglio dell'altra, come pure Are You Experienced, che nella esecuzione dell'undici ottobre si allunga oltre i dodici minuti, in una jam appassionante.
Poi abbiamo Red House, più di 15 minuti di suoni incredibili che si mischiano, di jam che si allungano nella pura improvvisazione, di musica che sgorga con grande forza dalla chitarra del leader.
Diversisssima dalle altre due.
Come pure Tax Free che, nella versione del dieci ottobre si allunga quasi sino a sedici minuti, diventando una delle jam pià creative del nostro.
Poi c'è anche l'omaggio ad Eric Clapton ed i Cream, con due bellissime versioni di Sunshine of Your Love.
Erano serate di grande passione, di forza, di geniale espressività : Jimi non era ancora afflitto dai problemi che ne avrebbero minato l'esistenza, suonava libero e creativo come non mai.
Purple Haze, Fire, Foxey Lady, i classici si sprecano, ma Jimi non butta via una nota.
Ascoltate Hear My Train A Comin, uno dei suoi blues più belli, lunghi, creativi. Versione da manuale questa, ben sopra ai dieci minuti, con continui assoli, stacchi e ripartenze o, ancora, la vigorosa Wild Thing dei Troggs, che non poteva certo mancare, come anche Voodoo Child, Spanish Castle Magic, Lover Man.
Ancora giovane Voodoo Child segna il futuro di Hendrix : un futuro ancora più creativo, senza legami con nessuno, libero come l'aria.
La fluidità della musica, le continue improvvisazioni, la forza dell'uomo sono solo alcune delle qualità che Jimi aveva : la voce forse non era il massimo, ma la chitarra lancinate e passionale era più che una voce,
Dopo avere ascoltato Wild Thing nella sua versione, non riesco più ad ascoltare quella dei Troggs ed anche Sunshine Of Your Love ( versione del 12 ) che arriva quasi a dieci minuti, è talmente bella che sembra che ci siano addirittura due chitarre e che lui le suoni con solo due mani.
Kramer ha fatto un lavoro della madonna, un lavoro sui suoni : ha reso tutto estremamente brillante, attuale, nuovo.
Quasi si stenta a credere che queste registrazioni siano del 1968, quarantatre anni fa, si fa fatica a crederlo.
Little Wing, peccato duri solo quattro minuti, è pura poesia, mentre Purple Haze appare ben tre volte ed è sempre una forza della natura.
Meriterebbe cinque stelle questo box, gliene diamo quattro perchè è dal vivo, le cinque vanno solo ai lavori in studio.
Ma in questo caso la tentazione di dare il massimo è molto alta.
Certo che se non fosse morto così giovane, Hendrix avrebbe raggiunto vette espressive straordinarie : avrebbe fatto jazz, avrebbe ampliato le sue improvvisazioni, avrebbe attraversato vari generi musicali, non avrebbe avuto confini.
Ascoltate le versioni più lunghe di Red House e Tax Free che appaiono in questo box, e vi renderete conto a che punto era arrivato.
Avrebbe allungato a dismisura certe canzoni, avrebbe incrociato la sua chitarra con altri protagonisti, non importa di quale stile musicale.
Jimi era in grado di suonare tutto.
Proprio tutto.
E con una forza, un cuore ed una versatilità che, dopo di lui, non ha più avuto nessuno, in tale misura.

21 settembre 2011

Kasabian - Velociraptor

Questa è la recensione di Velociraptor dei Kasabian, pubblicata da spaziorock.it:


Giunti al grande successo internazionale nell'arco di soli sette anni, gli inglesi Kasabian pubblicano in questo 2011 il quarto album in studio, "Velociraptor!". La loro carriera in rapidissima ascesa è stata sicuramente agevolata da un sound fresco e decisamente alternativo che ha attirato parecchie attenzioni sulla band. Anche l'etichetta di "eredi degli Oasis" che loro stessi si diedero (cosa poi ampiamente smentita da una proposta musicale ben più articolata) ha generato un certo tumulto mediatico, con conseguente passaparola da parte del pubblico.

Forti di un sound estremamente personale, un cocktail perfetto di indie rock, britpop e una giusta dose di elettronica, i Nostri ritornano a due anni dalla precedente pubblicazione con un album a dir poco esplosivo, uno degli aggettivi che meglio descrivono "Velociraptor!". Questo è infatti un disco che cattura l'attenzione dell'ascoltatore fin dalla prima traccia "Let's Roll Like We Used To", brano che introduce molte delle sonorità che caratterizzano la proposta dei Kasabian. Dall'inserimento di una tromba in stile Ennio Morricone, all'aria orientaleggiante che si respira nei primi secondi, si passa ad un sound più retrò, quasi anni '60/'70, che perdura nelle seguenti tracce. Una delle caratteristiche principali dei Kasabian è l'ampio uso dell'elettronica in stile Chemical Brothers (di cui Pizzorno, uno dei componenti della band, è un grande fan), mischiata con il loro indie rock in maniera eccelsa. A dire il vero, nelle prime quattro tracce questa è messa un po' in secondo piano per lasciare spazio ad un rock un po' più tradizionale (ma le basi si sentono eccome, così come i pesanti effetti applicati alla batteria e agli altri strumenti, voce compresa, seppur in quantità minore). "Days Are Forgotten", canzone già rodata in radio e in sede live, cattura l'ascoltatore in una sorta di viaggio (o per meglio dire di un trip da acido) anche grazie all'incredibile orecchiabilità del brano. Il ritornello entra in testa e non ne esce per un bel po'. "Days Are Forgotten" è probabilmente il pezzo più accattivante di tutto il disco, perfetto come singolo di apertura, oltre ad essere un bel riassunto di quello con cui si avrà a che fare una volta che ci si accingerà ad ascoltare l'album nella sua interezza. Nei suoi cinque minuti, "Days Are Forgotten" racchiude l'anima sperimentatrice del CD e mescola perfettamente l'indie rock con quel tocco di pop che da anni rappresenta il fulcro della proposta musicale della band delle Midlands inglesi.

"Goodbye Kiss" e "La Fée Verte", oltre ad essere due pezzi lenti, fungono quasi da spartiacque per l'album. Il sound cambia radicalmente dopo questi brani. Il primo è una classica ballata acustica accompagnata da un quartetto d'archi; una combinazione che non passa mai di moda. "La Fée Verte" è invece un po' più particolare: lenta sì, come la precedente, ma l'elettronica si sente molto di più in questo caso ed è una sorta di tributo al sound dei Beatles di Sgt. Pepper, estremamente mutevole nel suo essere comunque molto compatta e coerente con se stessa. Tutt'altra cosa sono invece le tracce che seguono. La title track è un pezzo dominato da grandi contaminazioni. L'elettronica torna in maniera dirompente sia nelle basi che nei filtri, pur stemperata da un'anima rock molto preponderante. Ma la vera apoteosi della sperimentazione arriva con "Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm)", che, per chi ha una vaga familiarità con i The Chemical Brothers, ricorda da lontano la chilometrica "Private Psychedelic Reel". Il sound nettamente orientaleggiante, sapientemente mescolato a quello tipico dei Kasabian, rende questo brano estremamente particolare; anche la duttilità della melodia, che viene sfruttata in tutti i modi, sia con l'utilizzo degli strumenti tradizionali (archi, chitarre, bassi...) che con un evidente intervento di synth, ha un che di straordinario per gli standard della musica moderna. Non è certamente un brano facile, ma una volta metabolizzato, cattura l'ascoltatore e lo spinge ad un ascolto più accurato. Da qui ha inizio un'inesorabile ascesa verso l'elettronica più pura, pur rimanendo ancorati a una solida base rock. Spicca tra queste ultime canzoni "Re-Wired", brano che si distingue per la semplicità con cui si possono cogliere le varie influenze della band mescolate tutte insieme in maniera estremamente armoniosa, in modo che una non escluda o prenda il sopravvento sull'altra. Estremamente interessante anche la chiusura, "Neon Noon", a metà strada tra una ballad acustica e un brano scritto da Vangelis, a rendere il tutto leggermente fantascientifico e irreale.

Tirando le somme, "Velociraptor!" è un ottimo disco. La contaminazione di generi così differenti rende le composizioni interessanti sotto ogni punto di vista, sia per un amante dell'indie rock che per un aficionado dell'elettronica. Peccato per il leggero calo nell'ultima parte del disco ("Man Of Simple Pleasures" non è certamente un grande capolavoro e stona un po' nel contesto generale), ma non è una sola canzone al di sotto delle aspettative a pregiudicare la resa di un album nella sua interezza. I Kasabian si confermano quindi tra i migliori esponenti del panorama alternative/indie rock, anche grazie alla loro grande capacità di reinventarsi senza sacrificare la propria identità.


17 settembre 2011

Other Lives - Tamer Animals - La recensione di Ondarock

 OTHER LIVES

Tamer Animals
(Tbd) 2011
chamber-pop


Solitary motion in the wake of an avalanche
Deer in the headlights, there goes a weaker one
I was listenin to Facades, I don't care enough to see the way
Do you hear the silence, I was far too late.
da "Tamer Animals"

È un'inspiegabile violenza, quella che a volte sorge dalle note di "Tamer Animals". Un disco che non tenta di ragionare, che non prova a ricondurre i movimenti delle tempeste di sabbia dell'Oklahoma - loro terra natìa - alle leggi fisiche della turbolenza e del trasporto di particelle solide. Puramente contemplativo, il rituale degli Other Lives si sviluppa seguendo sottili increspature di temi, di pianoforte e chitarra, a volte quasi ossessivi, evocando lunghe notti della Ragione attraverso il rifiuto di strutture e convenzioni musicali.
Questa è la portata del secondo disco della band di Stillwater, la quale, dopo il relativo successo dell'esordio, torna attraverso la Tbd con un disco messo a punto nell'arco di ben sedici mesi di instancabile lavoro, una canzone dopo l'altra, affastellata come nella progressiva composizione di una guglia gotica.

Davvero sorprendente la scelta degli Other Lives di gettarsi anima e corpo nella costruzione di un disco ben più radicale del precedente, che comunque aveva dalla sua diversi pezzi pop ben riconoscibili, seppur dilatati ed espansi dalla vena "orchestrale" della band. Virgolette non necessarie per questo "Tamer Animals", che, fin dall'iniziale duetto di fiati e archi (geniale la danza di intrecci) di "Dark Horse", tradisce l'ossessione di Jesse Tabish, principale compositore del gruppo, per la musica di Philip Glass, che qualcuno avrà già riconosciuto nel testo sopra citato e saprà divertirsi a ritrovare per tutto il disco, in una forma o nell'altra. Non manca ovviamente qualche traccia più morriconiana, "Old Statues" e "Desert" su tutte (con Joey Waronker, batterista di
Beck, che ancora mette la sua esperienza nel vibrante, spazioso apparato percussivo del disco).

Confermano ancora, se ce ne fosse bisogno, la necessità di una certa scena musicale indipendente di rivendicare la propria libertà d'espressione (tracce prog in "As I Lay My Head Down"), riuscendo in questo modo a sconfiggere sia l'integralismo del "prodotto" melodico che l'estetica, ormai superata, del lo-fi a tutti i costi. Non si cerca più il ritiro materiale e spirituale della propria cameretta, ma, pur nell'isolamento forzato (o no) dai mezzi quotidiani, si tenta di disegnare, attraverso la propria visione, il mondo o una parte di esso. È così che si crea il poderoso ralenti di "Dustbowl III", in cui le forze naturali si scatenano in una progressione che ricorda le più strumentali e cinematiche canzoni dei Kunek, identità precedente degli Other Lives, interrotta dopo il solo "Flight Of The Flynns".

Va detto, a scanso di equivoci: non è che le canzoni di "Tamer Animals" non riescano a soddisfare criteri di classificazione più "classica". Semplicemente li aggirano, incastonando in "For 12" l'etereo di un
Bon Iver e una costruzione un po' Fleet Foxes, tornando alla carica con la melodia monolitica della title track, un eterno impasse pianistico, teso allo spasimo fino alla brusca interruzione finale. Anche nelle tracce più cariche di orchestrazioni ("Woodwind Loop" o "Landforms") tutto suona naturale e mai sopra le righe, nonostante le intersezioni di flauto, corni, violini, l'importanza del contributo batteristico.
Sfugge e conquista "Tamer Animals": in questa interminabile guerriglia di sensazioni emerge in fondo la smania tangibile di Tabish e degli Other Lives per la traduzione in musica di ciò che è grande.