21 marzo 2013

DEPECHE MODE "DELTA MACHINE" - PRIME RECENSIONI

L'ATTESA STA PER FINIRE. "DELTA MACHINE", IL NUOVO DEPECHE MODE E' IN ARRIVO...E QUESTA E' UNA DELLE PRIME RECENSIONI TROVATA IN RETE.
ACQUOLINA IN BOCCA...


DEPECHE MODE
Delta Machine
Columbia Records
Release Date: 26 marzo 2013
 
 
 
Fare musica non è da tutti. Farne un’arte e riuscire a mantenere stile e successo per anni senza mai cadere nel troppo commerciale, nell’ovvio o nel ripetitivo è difficilissimo. I casi sono due: o sei un fottuto genio o sei uno dei tanti. Martin Lee Gore è un fottutissimo genio perché attraverso oltre tre decenni fatti di concerti dal vivo, album, collaborazioni, dj set e chi più ne ha più ne metta, ha portato i suoi Depeche Mode ad essere considerati una delle icone musicali per eccellenza e non di un genere, ma della musica a tutto tondo. Se poi hai la fortuna di avere come compagno di avventura un interprete dell’animo umano come David “Dave” Gahan, allora plani sul velluto delle certezze. Essere i capisaldi del sinth pop è stato solo un passaggio, un attimo, perché i Depeche Mode non sono classificabili, hanno provato a fare di tutto riuscendovi e continuano a farlo. Arriviamo così a parlare della loro ultima fatica discografica “Delta Machine” in uscita il prossimo 26 marzo.
 
Ancora una volta ci troviamo a discernere di qualcosa che non conoscevamo ancora, qualcosa di non facile definizione. Tra i tredici brani che compongono l’album (nella versione deluxe trovano spazio altre quattro track) non troverete il motivo orecchiabile alla “Enjoy the silence” o una hit dance come “behind the wheel”, perchè il disco si presenta come un unico corpo, compatto, un trattato intimistico elettronico che attraverso il suo portavoce trasuda blues e parla al cuore e alla testa. Troppo facile fare un disco per i fan e vendere milioni di copie, questo album lo hanno fatto lavorando su se stessi, hanno messo sulla bilancia anni di sperimentazioni, sensazioni e situazioni e tirate le somme questo farà si che il disco avrà successo, proprio perché è completamente fuori dai canoni, non va alla ricerca di consensi, li acquisisce attraverso la sincerità.
 
La partenza con “Welcome To My World” è esemplificativa, suoni minimali tanto cari a Andrew Fletcher e la voce di Dave sofferente e decadente come non mai che narra una storia, la loro storia, per poi sfociare nel trionfalismo musicale che solo pochi sono in grado di produrre, attraverso la fantasia onirica e ipnotica che distingue la loro musica da tanto tempo. Con “Angel” è la voce di Dave a trascinare per interpretazione ed istrionismo, riuscendo ad essere un animale raro anche in studio, cosa non da tutti, mentre “Heaven”, il primo singolo estratto di cui è stato realizzato un magnifico video, è la cosa più simile ad un “singolo” che potrete trovare in questo disco, senza per altro essere una canzone così “facile”. “Secret To The End” e “My Little Universe” ricordano molto da vicino il lavoro fatto sul precedente “Sound Of The Universe” anche se molto più esplosive ed emozionali, mentre “Slow” si appropria del blues, lo elettrifica, lo fa prostrare e poi lo riabilita attraverso l’interpretazione illusionista di un Gahan sopra la media. Quando si arriva a “Broken” ci si rende conto di quante influenze musicali attraversino le menti del trio inglese, di quanto la loro vita trovi sfogo nella loro musica. Ci si trova un po’ di tutto, dal ritornello melodico stile anni 70’ all’elettronica ottantiana, alla chitarra monocorde, il tutto condito da quell’impressione di tristezza mai fine a se stessa che è il marchio di fabbrica.
 
E’ il momento della “ballad”, è il momento di Martin che con “The Child Inside” ci fornisce attraverso la sua interpretazione una nuova splendida “ninna nanna” che contraddistingue da sempre ogni album della band. Con “Soft Touch/Raw Nerve” si torna a all’elettronica minimale e spinta, mentre “Should Be Higher” è il momento nel quale l’interpretazione di Dave recita il kamasutra dell’anima. Su un ritmo sensuale e cadenzato la sua voce danza contrapposta a quella di Martin più esoterica. Altro capitolo di assoluto spessore è “Alone” con tanto di cori che fanno vibrare le sensazioni, per un viaggio sensoriale verso l’infinito. “Soothe My Soul” più danzereccia e casuale, scelto da poco come secondo singolo, è forse la meno riuscita del lotto. Arriviamo così alla conclusione con “Goodbye”, evocativa, west and blues style, una “Personal Jesus” senza l’enfasi dell’originale ma molto più melodrammatica e dall’anima nera.
 
Gore durante un’intervista ha detto che con questo album vorrebbe far stare bene la gente, emozionarla. C’e’ da credere che nemmeno lui si sia reso conto di cosa hanno tirato fuori questa volta. Chi conosce i Depeche Mode sa quanto il loro approccio alla musica sia sempre stato molto “personale”, sono sempre stati in grado di andare a solleticare la fantasia dell’ascoltare, ma questa volta hanno fatto qualcosa di più, creando una forma di “dipendenza”, di asservimento consensuale dal quale non ci si vuole staccare. Una volta entrati dentro “Delta Machine”, riesce difficile poi pensare di poterne fare a meno, anzi, sarebbe triste pensare di farlo.
 
 
Recensione di Emiliano Vallarino
 
 
 

15 marzo 2013

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7 marzo 2013

DAVID BOWIE "THE NEXT DAY" - RECENSIONE

L'ATTESA STA PER FINIRE. TRA POCHISSIMO AVREMO PER LE MANI "THE NEXT DAY" IL NUOVO ALBUM DI BOWIE. INTANTO COMINCIANO A GIRARE IN RETE LE PRIME RECENSIONI. VI PROPONIAMO QUI QUELLA DI GIANNI SIBILLA SUL SITO "ROCKOL.IT", UNO DEI MIGLIORI SITI ITALIANI SPECIALIZZATI IN MUSICA. E DEVO DIRE CHE LEGGENDOLO VIENE L'ACQUOLINA IN BOCCA...








di Gianni Sibilla

La notizia dell’anno, per una volta, non è la morte di un cantante, ma il ritorno in vita di un artista. E che ritorno.
Poche storie: “The next day” è il disco più inaspettato degli ultimi anni, l’album più atteso dell’anno e tale rimarrà anche se siamo solo a marzo. Davamo per morto David Bowie e invece “The next day” è l’opera migliore dell'ultima fase della carriera, dagli anni '90 in poi.
L’abbiamo ascoltato in anteprima - ma un ascolto è sufficiente per rendersi conto di quanto sopra. E potete ascoltarlo anche voi, in streaming su iTunes, da oggi.
E se siete tra quelli che hanno unito all’entusiasmo per “Where are we now?” un po’ di timore per quella fragilità sbandierata, per quella malinconia che sembravano confermare le voci sulla precaria salute di Bowie... Beh, state pronti a cambiare idea.
“The next day” è un disco dal solido cuore rock con molte, molte sfacettature. “Where are we now?” non è la canzone più rappresentativa dell’album - strana scelta per un singolo di ritorno dopo quasi 10 anni. Piuttosto pensate a “The stars (are out tonight)”.



Un solido nucleo di canzoni rock, dritte ma mai banali: “The next day”, “Valentine’s day”, “Boss of me” e “You will set the world on fire” su tutte, con un enorme lavoro sulle chitarre (si sente la mano di Tony Visconti, produttore di fiducia), che rimandano al Bowie elettrico. E poi canzoni che variano sul tema del rock pop aggiungendo elementi come fiati (il blues waitsiano di “Dirty boys”), l’organo (“Love is lost”), gli archi (“Heat”). O riecheggiano altre fasi della carriera - i ritmi di “If you can see me” che ricordano il periodo drum ‘n’ bass di “Earthling”, la psichedelia pop di “I’d rather be high”, il pop geneticamente modificato di “”How does the grass grow”. Le ballate sono in minoranza: “You feel so lonely you could die” e la conclusiva e cupa “Heat”.
In mezzo riferimenti anche ironici e non troppo velati alla sua assenza e alle voci sulla sua malattia, nascosti dentro racconti in cui apparentemente Bowie non sta parlando di sé: “Here I am, not quite dying”, dice il ritornello in apertura di “The next day”. “Wave goodbye to life without pain”, dice “Love is lost” a metà album, per chiudersi con “And I tell myself I don’t know who I am” di “Heat”.
In realtà Bowie sa benissimo chi è, e “The next day” ce lo dimostra alla perfezione. Non è quello di “Heroes”, e la copertina ce lo ricorda, con quel gioco grafico (che continua pure sul retro, dove il retro dello storico album è cancellato da un altro quadrato bianco). Ma è un artista che ha coscienza del suo passato, non ne ha paura e sa guardare anche avanti. Sa scrivere ancora grandi canzoni (la firma sui brani è sempre la sua, tranne in due co-firmati con Gerry Leonard e uno con Jerry Lonard). Sa circondarsi dei giusti collaboratori (oltre a Visconti, il disco è stato inciso con Gail Ann Dorsey, Tony Levin, Zack Alford, tutti già in passato con lui).
Soprattutto, Bowie è un artista che sa trovare il suono giusto, mai scontato, sempre con la zampata di originalità che c’è in ogni canzone dell’album e come c’è quasi sempre stata nella sua carriera. Ma è una zampata che non ammazza mai il brano alla ricerca di effetti speciali, ma si pone al suo servizio.
“The next day” è l’esito di quella che potrebbe diventare nota come la “Cura Bowie” per un artista. Sparire dalle scene. Lasciar credere di essersi ritirati, rigenerandosi e ritrovando l’ispirazione. Tornare con un disco che riassume la carriera e riporta tutto a casa. Cura congliatissima per molti artisti iperprofolifici e ipoqualitativi. Con Bowie ha funzionato, eccome se ha funzionato. Il disco più atteso dell’anno, e l’attesa non deluderà nessuno