4 giugno 2013

LAURA MARLING
"Once i was an eagle"

Quando ti arrivano tra le mani gemme come questa non sai mai come reagire, perchè la parola "capolavoro" è spesso abusata (specialmente di questi tempi), perchè magari molti non saranno d'accordo con te, perchè temi di avere preso una solenne cantonata. Però ogni tanto bisogna pure sbilanciarsi, anche se i confronti che la stampa specializzata ha tirato in ballo sono molto impegnativi: si parte chiaramente dalle  Maestà Joni Mitchell  e Bob Dylan fino ai più recenti Cat Power e PJ Harvey. In ogni caso inquadrare la Marling come una nuova ed ennesima esponente del circuito indie-folk è ormai molto restrittivo e, se poteva avere un senso fino al precedente "A creature i don't know", ormai il suo caleidoscopio sonoro è talmente vasto ed ampio che rinchiuderla in una catalogazione qualsiasi risulta comunque riduttivo.
Un disco stratificato, pieno di suoni e parole, di atmosfere mutevoli e meravigliose, dove alle chitarre si sovrappongono percussioni e violoncelli e dove le sfumature country, blues e ovviamente folk si rincorrono continuamente. E poi a guidare il tutto la sua voce incantevole, vero centro focale del disco, talmente centrale da fare dire a "Rolling stone" che quasi pare di sentire uscire dalle casse il suo respiro.
Insomma, stavolta mi sbilancio: uno di quei dischi da non lasciarsi sfuggire, assolutamente. Potreste perdere un capolavoro!

 
ALICE IN CHAINS
"The devil put dinosaurs here"

Ogni nuovo album del gruppo di Jerry Cantrell è un avvenimento. Anche nel 2013. Soprattutto dopo il riuscitissimo "Black give way to blue" del 2009, che presentava in formazione il nuovo cantante William DuVall, c'era curiosità per vedere se anche stavolta il gruppo avrebbe saputo riconfermarsi. E la risposta è assolutamente e totalmente positiva. "The devil..." è un disco "Cantrelliano"al 100%, dove troviamo tutto quello che ci deve essere in un album degli Alice in chains: il suono asciutto, le chitarre sporche e pesanti,  le melodie acide, gli impasti vocali di Cantrell e DuVall. Il quale dimostra alla seconda prova di potere tranquillamente meritare il posto che si è ritagliato nei cuori dei fan. Insomma un disco potente, arcigno, duro e massiccio. Un grande disco, forse addirittura superiore al precedente.
E come sempre, se non vi fidate del mio giudizio, leggetevi anche la recensione uscita sul sito "Outsiders" e che riportiamo qui sotto.


Jerry Cantrell e la sua creatura son tornati, in grande stile come sempre. Rimasti orfani del mai abbastanza compianto Layne Staley, i rimanenti tre membri decidono nel 2005 di riunirsi insieme al talentuoso William DuVall per riprendere con orgoglio la loro storia tribolata, conclusa diversi anni prima della morte del loro frontman a causa del suo rapporto con la droga. Quattro anni dopo tornano sulle scene con Black Gives Way to Blue che riporta in auge il marchio Alice in Chains e la sua affascinante storia. Come per il predecessore, il nuovo album chiude ulteriormente lo spazio alle critiche mosse dopo la reunion, nonostante il rischio di un copia/incolla senza ispirazione tipico delle reunion di vecchie formazioni. Dodici tracce che si muovono con soluzione di continuità tra passato e futuro, dove il dualismo vocale si ripropone prepotentemente, vero marchio di fabbrica della band di Seattle. La triade che apre il disco (Hollow, Pretty Done e Stone) è nel classico stile Alice in Chains, tematiche oppimenti su un’intelaiatura sonora opprimente e vagamente pischedelica. Con Voices e Scalpel riapriamo il barattolo di mosche chiuso vent’anni fa, The Devil Put Dinosaurs Here e Phantom Limb gli inizi nella quale si “moriva giovani”. Sarebbe opportuno citare ogni traccia, tale è l’importanza di ogni singola nota di questo lavoro dove nulla è lasciato al caso, senza che l’ascoltatore si distragga a causa di un già sentito che ha il difetto di non avere la minima ispirazione.
La morte e le tematiche claustrofobiche sono state il motore di questa band, che in un momento delicato della loro carriera è entrata prepotentemente nelle loro vite, trascinando via una delle più grandi e sottovalutate personalità del rock moderno. Fisicamente Layne ha lasciato i suoi compagni di avventura, ma lo spirito è rimasto incollato ai loro strumenti e alla penna di Jerry Cantrell, che sapientemente non ha messo sulle spalle del nuovo arrivato il fardello dell’ingombrante figura del frontman scomparso. Le due voci che si accompagnano e si rincorrono non intaccano la magia degli anni passati, ma li salvaguardano e li distinguono senza scimmiottarli, rendendo il giusto carico di emozioni che ha un dolce sapore di tributo.
Una band che ha saputo reinventarsi senza speculare sul proprio passato, un nuovo inizio per ricostruire se stessi più che il proprio conto in banca, per continuare giorno dopo giorno a dare voce a chi ha contribuito a renderli quello che sono.