Born To Die
(Polydor) 2012
di Gianfranco Marmoro
Un'industria musicale agli sgoccioli sta raccogliendo quei pochi frutti adatti al grande pubblico, pescandoli nel grande panorama di musicisti che proliferano grazie alla rete e alla produzione lo-fi.
Il grande successo di Adele deve aver convinto qualche manager a investire risorse nella ricerca di artisti pop in equilibrio tra mainstream e alternative. Inoltre, il vuoto lasciato da Amy Winehouse ha collocato nel limbo la grande musica pop americana.
Colpevole o vittima di questo sdoganamento del pop indie, Lana Del Rey è il personaggio che negli ultimi mesi ha concentrato un'attenzione enorme da parte dei mass media. Inevitabilmente, ciò ha deviato l'attenzione dalla musica sull'autenticità dell'artista.
"Born To Die" necessità di una doppia lettura: oltre al contenuto puramente musicale, merita analisi anche il fenomeno mediatico.
Una serie di notizie e scoop hanno modificato le attese e le prime convinzioni del pubblico, e l'ingenua e timida stella nascente ha lasciato il cuore dei primi blogger entusiasti per entrare nel sistema produttivo più ampio e professionale delle grandi case discografiche.
Chiunque conosca gli oltre sessant'anni di storia del rock non può negare l'importanza della promozione (che ora definiamo, con tono snob, marketing) nella costruzione della cultura pop-rock, e non c'è nulla di nuovo nell'interesse di manager e produttori per un talento emergente.
Nessuno ha mai accusato i Sex Pistols di aver firmato per la grande industria della Emi-Virgin, né tantomeno i puristi del rock hanno criticato la scelta dei Velvet Underground di incidere per la puritana e obsoleta Verve/Mgm (infatti il loro passaggio all'Atlantic fu conseguenza di una epurazione del presidente della label, pronto a liquidare tutti gli artisti dediti alle droghe).
Ma il popolo del web indie-addicted chiede ora vendetta per l'inganno perpetrato alle sue spalle da Lana Del Rey (il cui vero nome è Elizabeth Grant). Sono forse delusi gli irruenti sostenitori della prima ora, queli che la credevano una loro figlioccia, ma Lana è una donna matura e consapevole e cammina da sola. Anzi, il gossip e il marketing (ops?) hanno lastricato il suo cammino verso il successo e la notorietà.
Evidentemente si ignora con dolo che il progetto di "Born To Die" raccoglie i semi di un lungo lavoro; dopo un esordio diffuso in formato digitale e poi, intelligentemente, ritirato dall'etichetta 5 Points, il brano "Video Games" - notevolmente diverso dal normale pop radiofonico - ha raccolto inattesi consensi su iTunes e tra i naviganti dell'etere. Le perplessità dell'autrice, raccolte in tempi non sospetti ("l'ho pubblicata perché era la canzone che mi emozionava di più, ma ero titubante sul responso del pubblico") la dice lunga sulla presunta macchinazione promozionale.
Comprensibile il disappunto di tutti coloro che hanno appreso la passione per l'alta moda di Lana Del Rey, o della presenza di un ricco staff che lavora dietro le quinte, ma ci sono anche amicizie con un artista emergente (Woodkid) noto per i suoi commercial per Lipton e Vogue e i videoclip per Katy Perry, e (orrore!) Lana si avvale di uno staff di avvocati per evitare le truffe del music business.
Poveri ingenui detentori della purezza artistica, i fan dell'indie hanno retto male il colpo, abbagliati dalla bellezza (quella sì, innegabile) di "Video Games", si sono fatti prendere in giro dal business ed ecco che una serie di pettegolezzi e accuse invade il web. Dove lei è stata celebrata e amata, ora c'è solo spazio per inevitabili accuse di plagio ("Video Games" assomiglierebbe a un brano dell'artista greca Eleni Vitali, "Dromoi Agapisa Pou"), malignità sulle labbra a canotto, o critiche sulla scarsa resa live (la sua esibizione al Saturday Night Live è stata definita "disastrosa"), le accuse piovono come se un'orda di amanti traditi svelasse i segreti che si celano sotto le lenzuola. Ma la verità è solo nella sua musica, un patrimonio personale che Lana Del Rey ha profuso in piena libertà e che deve aver turbato molti sogni erotici.
"Born To Die" è un album di musica pop, e la musica pop non ha l'autenticità come requisito primario. Ciò che resta evidente è la sua capacità di scrivere canzoni che assorbono illusioni e speranze della sua generazione.
Se Nancy Sinatra è il riferimento evocato, non vanno taciuti altri illustri precedenti: Bobbie Gentry, Peggy Lee, Dusty Springfield, Lulu, Julie London potrebbero sostituire l'immagine di Lana Del Rey in copertina senza alterarla. Il look da femme fatale in bilico tra Marlene Dietrich, Judy Garland e Jessica Rabbit nasconde quel po' di svogliatezza e fragilità che può a tratti rendere il tutto goffo, ma tradisce la presenza di emozioni.
"Video Games" resta un autentico fulmine a ciel sereno per la musica pop, è la sua "Time After Time" - anche se non ci sarà Miles Davis a traghettarla verso l'eternità. Anche le ambigue costruzioni letterarie e sonore di "Blue Jeans" sono capaci di rivelare dettagli a ogni ascolto, con pulsioni trip-hop adatte alle doti interpretative di Lana. Trasferitasi in Scozia, la cantante riversa il suo passato "made in Usa" nelle inflessioni soul della intrigante e disturbante "Off To The Races", un soul-hip-hop oscuro e malsano che acquista spessore dopo più ascolti trasformandosi da un probabile pasticcio armonico in una versione punk-pop dei Portishead.
Non convincono, invece, altri incroci soul-pop: "National Anthem" (con tanto di citazione di "Bitter Sweet Symphony" dei Verve) e "Summertime Sadness" hanno la colpa di riproporre gli stessi archetipi sonori, senza magia evocativa e con evidenti ingenuità. La title track "Born To Die", pur restando controversa per molti, è invece una delle soluzioni sonore più stimolanti del disco, e il tocco dark-gothic che caratterizza il brano - così come il video di Yoann Lemoine (Woodkid) - sono l'edificazione più ambiziosa e riuscita.
Lana Del Rey sta crescendo insieme alle sue canzoni: le ingenuità carezzevoli di "Diet Mountain Dew", "Dark Paradise" e "Lolita" (una delle tre tracce bonus dell'edizione limitata) sono contestuali per qualsiasi album di musica pop e non sottraggono verve. Il fascino autobiografico di "Radio", il mieloso incidere di "Carmen" e il pregnante passo soul alla Macy Gray di "This Is What Makes Us Girls" completano un quadro complesso e ricco, che rende il lavoro qualcosa in più di una raccolta di singoli.
Sempre caratterizzato da una produzione impeccabile (forse giusto un po' troppo omogenea), "Born To Die" è puro pop. Lana ama definirlo Hollywood Sadcore, ma la presenza di molte stand-out tracks lo rende più ricco e amabile, e le ammalianti note della superba "Million Dollar Man" - una torch song elegante e sensuale che Fiona Apple bramerebbe avere nel suo repertorio - sono testimonianza di un talento autentico.
Lana Del Rey non è una one hit wonder e la sua musica ripristina l'amore per la musica pop anche nei cuori più pavidi. "Video Games" è il perfetto esempio di pop trasversale capace di emozionare più di una sensibilità, e la canzone è destinata ad essere una tra le più interpretate e rilette nel prossimo decennio. Se per qualcuno è troppo poco, beh, abbia almeno il buon gusto di tacere.
(01/02/2012)
Il grande successo di Adele deve aver convinto qualche manager a investire risorse nella ricerca di artisti pop in equilibrio tra mainstream e alternative. Inoltre, il vuoto lasciato da Amy Winehouse ha collocato nel limbo la grande musica pop americana.
Colpevole o vittima di questo sdoganamento del pop indie, Lana Del Rey è il personaggio che negli ultimi mesi ha concentrato un'attenzione enorme da parte dei mass media. Inevitabilmente, ciò ha deviato l'attenzione dalla musica sull'autenticità dell'artista.
"Born To Die" necessità di una doppia lettura: oltre al contenuto puramente musicale, merita analisi anche il fenomeno mediatico.
Una serie di notizie e scoop hanno modificato le attese e le prime convinzioni del pubblico, e l'ingenua e timida stella nascente ha lasciato il cuore dei primi blogger entusiasti per entrare nel sistema produttivo più ampio e professionale delle grandi case discografiche.
Chiunque conosca gli oltre sessant'anni di storia del rock non può negare l'importanza della promozione (che ora definiamo, con tono snob, marketing) nella costruzione della cultura pop-rock, e non c'è nulla di nuovo nell'interesse di manager e produttori per un talento emergente.
Nessuno ha mai accusato i Sex Pistols di aver firmato per la grande industria della Emi-Virgin, né tantomeno i puristi del rock hanno criticato la scelta dei Velvet Underground di incidere per la puritana e obsoleta Verve/Mgm (infatti il loro passaggio all'Atlantic fu conseguenza di una epurazione del presidente della label, pronto a liquidare tutti gli artisti dediti alle droghe).
Ma il popolo del web indie-addicted chiede ora vendetta per l'inganno perpetrato alle sue spalle da Lana Del Rey (il cui vero nome è Elizabeth Grant). Sono forse delusi gli irruenti sostenitori della prima ora, queli che la credevano una loro figlioccia, ma Lana è una donna matura e consapevole e cammina da sola. Anzi, il gossip e il marketing (ops?) hanno lastricato il suo cammino verso il successo e la notorietà.
Evidentemente si ignora con dolo che il progetto di "Born To Die" raccoglie i semi di un lungo lavoro; dopo un esordio diffuso in formato digitale e poi, intelligentemente, ritirato dall'etichetta 5 Points, il brano "Video Games" - notevolmente diverso dal normale pop radiofonico - ha raccolto inattesi consensi su iTunes e tra i naviganti dell'etere. Le perplessità dell'autrice, raccolte in tempi non sospetti ("l'ho pubblicata perché era la canzone che mi emozionava di più, ma ero titubante sul responso del pubblico") la dice lunga sulla presunta macchinazione promozionale.
Comprensibile il disappunto di tutti coloro che hanno appreso la passione per l'alta moda di Lana Del Rey, o della presenza di un ricco staff che lavora dietro le quinte, ma ci sono anche amicizie con un artista emergente (Woodkid) noto per i suoi commercial per Lipton e Vogue e i videoclip per Katy Perry, e (orrore!) Lana si avvale di uno staff di avvocati per evitare le truffe del music business.
Poveri ingenui detentori della purezza artistica, i fan dell'indie hanno retto male il colpo, abbagliati dalla bellezza (quella sì, innegabile) di "Video Games", si sono fatti prendere in giro dal business ed ecco che una serie di pettegolezzi e accuse invade il web. Dove lei è stata celebrata e amata, ora c'è solo spazio per inevitabili accuse di plagio ("Video Games" assomiglierebbe a un brano dell'artista greca Eleni Vitali, "Dromoi Agapisa Pou"), malignità sulle labbra a canotto, o critiche sulla scarsa resa live (la sua esibizione al Saturday Night Live è stata definita "disastrosa"), le accuse piovono come se un'orda di amanti traditi svelasse i segreti che si celano sotto le lenzuola. Ma la verità è solo nella sua musica, un patrimonio personale che Lana Del Rey ha profuso in piena libertà e che deve aver turbato molti sogni erotici.
"Born To Die" è un album di musica pop, e la musica pop non ha l'autenticità come requisito primario. Ciò che resta evidente è la sua capacità di scrivere canzoni che assorbono illusioni e speranze della sua generazione.
Se Nancy Sinatra è il riferimento evocato, non vanno taciuti altri illustri precedenti: Bobbie Gentry, Peggy Lee, Dusty Springfield, Lulu, Julie London potrebbero sostituire l'immagine di Lana Del Rey in copertina senza alterarla. Il look da femme fatale in bilico tra Marlene Dietrich, Judy Garland e Jessica Rabbit nasconde quel po' di svogliatezza e fragilità che può a tratti rendere il tutto goffo, ma tradisce la presenza di emozioni.
"Video Games" resta un autentico fulmine a ciel sereno per la musica pop, è la sua "Time After Time" - anche se non ci sarà Miles Davis a traghettarla verso l'eternità. Anche le ambigue costruzioni letterarie e sonore di "Blue Jeans" sono capaci di rivelare dettagli a ogni ascolto, con pulsioni trip-hop adatte alle doti interpretative di Lana. Trasferitasi in Scozia, la cantante riversa il suo passato "made in Usa" nelle inflessioni soul della intrigante e disturbante "Off To The Races", un soul-hip-hop oscuro e malsano che acquista spessore dopo più ascolti trasformandosi da un probabile pasticcio armonico in una versione punk-pop dei Portishead.
Non convincono, invece, altri incroci soul-pop: "National Anthem" (con tanto di citazione di "Bitter Sweet Symphony" dei Verve) e "Summertime Sadness" hanno la colpa di riproporre gli stessi archetipi sonori, senza magia evocativa e con evidenti ingenuità. La title track "Born To Die", pur restando controversa per molti, è invece una delle soluzioni sonore più stimolanti del disco, e il tocco dark-gothic che caratterizza il brano - così come il video di Yoann Lemoine (Woodkid) - sono l'edificazione più ambiziosa e riuscita.
Lana Del Rey sta crescendo insieme alle sue canzoni: le ingenuità carezzevoli di "Diet Mountain Dew", "Dark Paradise" e "Lolita" (una delle tre tracce bonus dell'edizione limitata) sono contestuali per qualsiasi album di musica pop e non sottraggono verve. Il fascino autobiografico di "Radio", il mieloso incidere di "Carmen" e il pregnante passo soul alla Macy Gray di "This Is What Makes Us Girls" completano un quadro complesso e ricco, che rende il lavoro qualcosa in più di una raccolta di singoli.
Sempre caratterizzato da una produzione impeccabile (forse giusto un po' troppo omogenea), "Born To Die" è puro pop. Lana ama definirlo Hollywood Sadcore, ma la presenza di molte stand-out tracks lo rende più ricco e amabile, e le ammalianti note della superba "Million Dollar Man" - una torch song elegante e sensuale che Fiona Apple bramerebbe avere nel suo repertorio - sono testimonianza di un talento autentico.
Lana Del Rey non è una one hit wonder e la sua musica ripristina l'amore per la musica pop anche nei cuori più pavidi. "Video Games" è il perfetto esempio di pop trasversale capace di emozionare più di una sensibilità, e la canzone è destinata ad essere una tra le più interpretate e rilette nel prossimo decennio. Se per qualcuno è troppo poco, beh, abbia almeno il buon gusto di tacere.
(01/02/2012)
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