DOMANDA: ESISTONO POSTI DOVE LE T-SHIRT MUSICALI POSSONO ESSERE FANTASTICHE COME QUESTE?
12 aprile 2013
11 aprile 2013
Potrebbe esistere un titolo migliore di "Nomad" per un album di un musicista Tuareg? I Tuareg sono popolazioni nomadi per tradizione, e in anni recenti costrette ad ulteriori e spesso tragici spostamenti a causa delle guerre che insanguinano i territori sub sahariani, in modo particolare il Mali ed il Niger, stato quest'ultimo che ha dato i natali a Omara Moctar, in arte Bombino. E' lui l'ultima grande scoperta della musica Tuareg, dopo che in anni recenti avevamo assistito all'affermazione, anche nel cosiddetto "Nord del mondo" dei maliani Tinariwen. E' stato nel suo vagare attraverso le zone limitrofe al natio Niger che Bombino, chitarrista fin da ragazzo, ha potuto innamorarsi di Hendrix e di Mark Knopfler, i musicisti occidentali dai quali dichiara di essere stato maggiormente influenzato. Dopo due dischi locali di "desertic blues" è stato notato da una delle etichette più attente alle sonorità "altre", la Nonesuch (per la quale hanno inciso artisti del calibro di Bill Frisell e Ry Cooder), che per il suo nuovo album gli ha affiancato un produttore di grande talento e di sicuro richiamo come Dan Auerbach dei Black Keys. Nei suoi studi di Nashville è nato così "Nomad", dove i due sono riusciti a coniugare il suono tipicamente "sahariano" di Bombino con accenti molto più americani senza che questo intacchi il valore "etnico" di un simile prodotto. Credo anzi che le tastiere, le lap steel, il vibrafono addirittura, insomma gli arrangiamenti che Auerbach ha costruito intorno ai brani, siano assolutamente funzionali e direi indispensabili perchè un musicista del genere possa diventare appetibile per il pubblico occidentale. Senza snaturare l'essenza della musica di Bombino, Auerbach è riuscito a rispettarne la primordialità e la semplicità compositiva oltre che la sua straordinaria capacità chitarristica. Un disco insomma altamente consigliato, non solo a chi ha amato i Tinariwen ma a tutti quelli che amano le contaminazioni tra il blues ed i suoni "altri".
"INDIGO MEADOW" E' IL NUOVO ALBUM DEI TEXANI "BLACK ANGELS", CHE DOPO L'OTTIMO "PHOSPENE DREAM" FANNO ANCORA CENTRO CON QUESTO NUOVO LAVORO, INCENTRATO SEMPRE SU UN SUONO CHE MOLTO DEVE ALLA PSICHEDELIA FINE '60 - PRIMI '70 MA RIVISTO SECONDO STILEMI E SUONI MOLTO PIU' CONSONI AI NOSTRI TEMPI. SICURAMENTE UNO DEI DISCHI PIU' INTERESSANTI DEGLI ULTIMI MESI. COME SI EVINCE ANCHE DALLA BELLA RECENSIONE FATTA DAL SITO "DISTORSIONI" CHE POTETE LEGGERE QUI DI SEGUITO.
The Black Angels
INDIGO MEADOW
2013 - Blue Horizon Records
[Uscita: 2/04/2013]
[Uscita: 2/04/2013]
Se
qualcuno dovesse mai domandarsi se esiste una psichedelia tipica della
nostra epoca, dei cosiddetti Anni Zero, la risposta sarebbero i Black
Angels e non certo per una questione puramente cronologica. La band di
Austin, Texas, produce infatti delle sonorità saldamente incardinate
nella contemporaneità, indubbiamente attuali e moderne. Nemmeno per un
attimo i brani di questo nuovo lavoro in studio potrebbero essere
scambiati per materiale prodotto negli anni in cui la psichedelia
nasceva, non c'è nessun tentativo di riprodurre fedelmente quei suoni,
nonostante sia evidente come quella lezione i Black Angels l'abbiano
imparata e metabolizzata. La lezione di band come i 13th
Floor Elevators, concittadini illustri, e dei numerosi altri gruppi
psichedelici che fiorirono negli anni '60, soprattutto in Texas, uno
degli stati più prolifici per numero e qualità di band. Forti sono anche
gli echi dei gruppi della West Coast, Jefferson Airplane in testa, e
non solo per le sonorità ma anche per l'impegno civile e politico che ne
caratterizzava i testi. Ma, come si diceva, i Black Angels sono un
prodotto del loro (del nostro) tempo e di conseguenza hanno assorbito
anche ciò che musicalmente è arrivato più recentemente, in particolare
l'epoca del post-punk e l'eredità di gruppi come i Joy Division e i
Jesus & Mary Chain. Ci sono tutte queste influenze nella musica dei
Black Angels ma quello che ne viene fuori, il risultato finale, è
qualcosa d'altro, qualcosa di personale e originale, uno stile di
psichedelia (o dobbiamo chiamarla post-psichedelia?) rinnovato, che va
rifinendosi e perfezionandosi ad ogni nuovo lavoro e che in "Indigo Meadow" segna un ulteriore, radicale passo avanti rispetto al precedente, pur eccellente, "Phosphene Dream".
Lasciati i toni dilatati e tranquilli di "Phosphene Dream", la psichedelia che ci propongono in "Indigo Meadow" è irruente, rafforzata da linee ritmiche cupe e sincopate e da riff di chitarra incisivi e potenti, spesso al limite dello stoner, sapientemente alternati ad ambientazioni psych più morbide, a volte anche all'interno dello stesso brano, come nello splendido Love Me Forever, che parte come un trip psichedelico degno di un Roky Erickson, per poi esplodere improvvisamente con energica intensità rock. Altra punta di diamante del disco è Don't Play With Guns, brano dalla melodia accattivante e dal ritornello cantilenante, di quelli che ti rimangono in testa in maniera indelebile al primo ascolto. Si tratta, tra l'altro, di un brano dal testo particolarmente impegnato, in cui una donna invita un indefinito protagonista (noi, tutti) a non giocare con le armi, monito che non è certo impartito a caso in un paese in cui è piuttosto facile entrare in possesso di un'arma, con le conseguenze tragiche di cui periodicamente siamo testimoni. E' indubbio che ai testi i Black Angels tengano particolarmente poiché hanno cura di rimarcarne loro stessi i contenuti significativi. Un impegno nei testi che ricorre anche in Broken Soldier, brano dalle atmosfere psichedeliche, che parla di un soldato in una guerra di cui è difficile capire da che parte stare, come in tutte le guerre d'altronde ("It's hard to kill when you don't know which side you're on") e il cui flusso di coscienza erompe parallelamente al crescere violento della musica nel ricordargli che non sarà più lo stesso quando tutto ciò sarà finito ("you'll never be the same when this is over").
Il resto del disco coniuga in miscela variabile psichedelia e divagazioni dark: atmosfere dilatate e bel basso incalzante in Holland, chitarre acide che si sovrappongono a un cantato scuro e ad aperture quasi new wave in Always Maybe, mentre I Hear Colors abbandona le ritmiche cupe del post punk per avvicinarsi a suoni acidi in stile West Coast. L'unico pezzo curiosamente al di fuori del carattere complessivo di "Indigo Meadow", è il penultimo, You're Mine, che invece rivisita, in maniera personalizzata, alcune suggestioni garage rock con risultati di altrettanto alto livello. Esperimento per una prossima, ulteriore tappa nell'evoluzione del suono dei Black Angels?
Lasciati i toni dilatati e tranquilli di "Phosphene Dream", la psichedelia che ci propongono in "Indigo Meadow" è irruente, rafforzata da linee ritmiche cupe e sincopate e da riff di chitarra incisivi e potenti, spesso al limite dello stoner, sapientemente alternati ad ambientazioni psych più morbide, a volte anche all'interno dello stesso brano, come nello splendido Love Me Forever, che parte come un trip psichedelico degno di un Roky Erickson, per poi esplodere improvvisamente con energica intensità rock. Altra punta di diamante del disco è Don't Play With Guns, brano dalla melodia accattivante e dal ritornello cantilenante, di quelli che ti rimangono in testa in maniera indelebile al primo ascolto. Si tratta, tra l'altro, di un brano dal testo particolarmente impegnato, in cui una donna invita un indefinito protagonista (noi, tutti) a non giocare con le armi, monito che non è certo impartito a caso in un paese in cui è piuttosto facile entrare in possesso di un'arma, con le conseguenze tragiche di cui periodicamente siamo testimoni. E' indubbio che ai testi i Black Angels tengano particolarmente poiché hanno cura di rimarcarne loro stessi i contenuti significativi. Un impegno nei testi che ricorre anche in Broken Soldier, brano dalle atmosfere psichedeliche, che parla di un soldato in una guerra di cui è difficile capire da che parte stare, come in tutte le guerre d'altronde ("It's hard to kill when you don't know which side you're on") e il cui flusso di coscienza erompe parallelamente al crescere violento della musica nel ricordargli che non sarà più lo stesso quando tutto ciò sarà finito ("you'll never be the same when this is over").
Il resto del disco coniuga in miscela variabile psichedelia e divagazioni dark: atmosfere dilatate e bel basso incalzante in Holland, chitarre acide che si sovrappongono a un cantato scuro e ad aperture quasi new wave in Always Maybe, mentre I Hear Colors abbandona le ritmiche cupe del post punk per avvicinarsi a suoni acidi in stile West Coast. L'unico pezzo curiosamente al di fuori del carattere complessivo di "Indigo Meadow", è il penultimo, You're Mine, che invece rivisita, in maniera personalizzata, alcune suggestioni garage rock con risultati di altrettanto alto livello. Esperimento per una prossima, ulteriore tappa nell'evoluzione del suono dei Black Angels?
Voto: 8.5/10
Rossana Morriello
The Black Angels
Tracklist:
1. Indigo Meadow
2. Evil Things
3. Don't Play With Guns
4. Holland
5. The Day
6. Love Me Forever
7. Always Maybe
8. War On Holiday
9. Broken Soldier
10. I Hear Colors (Chromaesthesia)
11. Twisted Light
12. You re Mine
13. Black Isn't Black
Tracklist:
1. Indigo Meadow
2. Evil Things
3. Don't Play With Guns
4. Holland
5. The Day
6. Love Me Forever
7. Always Maybe
8. War On Holiday
9. Broken Soldier
10. I Hear Colors (Chromaesthesia)
11. Twisted Light
12. You re Mine
13. Black Isn't Black
10 aprile 2013
ESCE IN QUESTI GIORNI "GHOST ON GHOST", IL NUOVO (E CREDO 6°) ALBUM DI "IRON & WINE", UNO DEI NOMI DI PUNTA DEL NUOVO FOLK AMERICANO. DOPO I BELLISSIMI "AROUND THE WELL" E "KISS EACH OTHER CLEAN" ANCHE IL NUOVO LAVORO CONFERMA CHE PER SAMUEL BEAM (VERO NOME DEL "NOSTRO") IL FOLK E' ORMAI UN PUNTO DI PARTENZA SUL QUALE SI INNESTANO IL BLUES, LA MUSICA ETNICA, IL POP, IN UNA VISIONE MUSICALE A 360 GRADI.
MA ECCOVI LA BELLA RECENSIONE DEL SITO ON LINE "SENTIREASCOLTARE"
Ghost On Ghost
Nonesuch
Due anni fa Kiss Each Other Clean aveva
fatto storcere il naso ai puristi del folk: troppo lontani dalla
tradizione gli arrangiamenti che andavano a pescare nell'etno e nel
blues, in un mescolamento trasversale che non trovava pari nella cultura
dei white guys with beards, al contrario di quanto succedeva nel più ampio massimalismo major indie à la
Sufjan Stevens e M83. Un incasellamento forse più legato a
un'operazione della critica che a una voluta scelta artistica, ma che di
fatto si è oramai cristallizato. Ghost On Ghost è la conferma che per Iron & Wine
la direzione intrapresa era quella che si voleva perseguire, senza che
ciò comportasse necessariamente rinnegare le radici. Il disco risulta
così ancor più bandistico e prodotto del predecessore, avvolto in una
tavolozza ampia di sentori e stratificazioni, tanto che è naturale
vedervi un passo verso un pubblico ancora più vasto, maggiormente pop e
meno - letteralmente - indie.
Se il compito dei critici fosse giudicare le scelte artistiche, invece dei risultati che queste comportano, dovremmo forse far rientrare il nostro discorso in quello di coloro che, forse più da fan che da professionisti, hanno scelto di dividere il campo tra "puro" e "impuro", tra ciò che è accettabile in nome di una aderenza alla tradizione (e a una cultura musicale) e quello che non lo è e si presenta sotto forma di ammiccamento al radioplay, al mainstream e al pop inteso in senso almeno parzialmente dispregiativo. A questa divisione dello spazio critico in campi contrapposti, che crediamo non sia direttamente il compito di chi scrive di musica, preferiamo un discorso prettamente ancorato alla concrezione dell'arte (in questo caso l'album e le canzoni che esso contiene), lasciando che lo spazio della biografia dell'esecutore e dell'autore siano elementi di contestualizzazione e non punti sostanziali del nostro discorso.
In questo senso Ghost On Ghost ci appare come un discorso altrettanto alto, completo e riuscito del precedente. Lo ribadiamo: siamo lontani, come sottolineava il nostro Solventi due anni fa, dal capolavoro (forse irripetibile) di The Sheperd's Dog, ma siamo comunque su di un piano di raffinato cantautorato folk-blues-etno-pop che forse non conosce rivali in questo momento storico, pur avendo avi illustri come il Paul Simon degli anni Ottanta. I fiati, talvolta anche con tocchi jazzati (Lover's Revolution), sono una costante che dà colore a tutto il disco, aiutando a creare le atmosfere ora bucolico-psych (Joy) o urban-soul (Low Light Buddy Of Mine), ora gospel-folk da call&response (Singers And The Endless Song) o West Coast in quota Beach Boys (Grace For Saints And Ramblers).
I brani filano via in eleganza e scorrevolezza come figli di una penna colta, attenta e divertita. Ogni suono, ogni scelta di arrangiamento, ogni dettaglio attinge a un immaginario musicale (e non solo) che fa parte del DNA della tradizione americana e, in generale, della storia del pop di tutti i tempi, da Tin Pan Alley al bedroom pop dei duemila. E quindi anche della nostra di fruitori musicali. Ascoltando le dodici tracce sarà inevitabile andare a cercare il riferimento a Stevie Wonder, agli Steely Dan, ai Calexico, a Van Dyke Parks, agli anni Trenta come ai Settanta. Li ritroveremo tutti, divertendoci, ma forse senza sorprenderci mai davvero. E questo forse è il limite maggiore di questa scelta più ampia ed ecumenica operata da Sam Beam: per parlare a un pubblico allargato, si rende la musica più pop(olare).
Se il compito dei critici fosse giudicare le scelte artistiche, invece dei risultati che queste comportano, dovremmo forse far rientrare il nostro discorso in quello di coloro che, forse più da fan che da professionisti, hanno scelto di dividere il campo tra "puro" e "impuro", tra ciò che è accettabile in nome di una aderenza alla tradizione (e a una cultura musicale) e quello che non lo è e si presenta sotto forma di ammiccamento al radioplay, al mainstream e al pop inteso in senso almeno parzialmente dispregiativo. A questa divisione dello spazio critico in campi contrapposti, che crediamo non sia direttamente il compito di chi scrive di musica, preferiamo un discorso prettamente ancorato alla concrezione dell'arte (in questo caso l'album e le canzoni che esso contiene), lasciando che lo spazio della biografia dell'esecutore e dell'autore siano elementi di contestualizzazione e non punti sostanziali del nostro discorso.
In questo senso Ghost On Ghost ci appare come un discorso altrettanto alto, completo e riuscito del precedente. Lo ribadiamo: siamo lontani, come sottolineava il nostro Solventi due anni fa, dal capolavoro (forse irripetibile) di The Sheperd's Dog, ma siamo comunque su di un piano di raffinato cantautorato folk-blues-etno-pop che forse non conosce rivali in questo momento storico, pur avendo avi illustri come il Paul Simon degli anni Ottanta. I fiati, talvolta anche con tocchi jazzati (Lover's Revolution), sono una costante che dà colore a tutto il disco, aiutando a creare le atmosfere ora bucolico-psych (Joy) o urban-soul (Low Light Buddy Of Mine), ora gospel-folk da call&response (Singers And The Endless Song) o West Coast in quota Beach Boys (Grace For Saints And Ramblers).
I brani filano via in eleganza e scorrevolezza come figli di una penna colta, attenta e divertita. Ogni suono, ogni scelta di arrangiamento, ogni dettaglio attinge a un immaginario musicale (e non solo) che fa parte del DNA della tradizione americana e, in generale, della storia del pop di tutti i tempi, da Tin Pan Alley al bedroom pop dei duemila. E quindi anche della nostra di fruitori musicali. Ascoltando le dodici tracce sarà inevitabile andare a cercare il riferimento a Stevie Wonder, agli Steely Dan, ai Calexico, a Van Dyke Parks, agli anni Trenta come ai Settanta. Li ritroveremo tutti, divertendoci, ma forse senza sorprenderci mai davvero. E questo forse è il limite maggiore di questa scelta più ampia ed ecumenica operata da Sam Beam: per parlare a un pubblico allargato, si rende la musica più pop(olare).
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