6 marzo 2012

Bruce Springsteen - Wrecking Ball: la recensione di Rockol

Nel giorno dell'uscita di Wrecking Ball, il nuovo bellissimo album di Bruce Springsteen, vi presentiamo la recensione pubblicata dal sito rockol.it 

Bruce Springsteen

WRECKING BALL


Columbia (CD)







  Il cuore, il lavoro, lo spirito: è tutto ciò che manca, e ci serve ora.
Prima di ascoltare l'intero album, "We take care of our own" sembrava il pezzo perfetto per essere frainteso e strumentalizzato come accadde per "Born in the U.S.A.", con quello spirito vagamente patriottico e un sapore da chiamata alle armi tutto americano; ora, invece, sappiamo che è soprattutto la domanda brutale alla quale gli altri brani di "Wrecking ball" proveranno a fornire una risposta.
E' un album, questo, che urla in faccia che la distanza tra la realtà e il sogno americano è enorme, che la promessa è stata tradita. Parla di depressione. Economica, per cominciare; sociale, per peggiorare; morale - il che è intollerabile per Bruce. Accusa il colpo e si preoccupa soprattutto di non essere frainteso: non solo attraverso testi inequivocabili e bellissimi, ma anche scarnificando la sua musica, risalendo alle radici del folk per offrire ai suoi personaggi e alle sue immagini cinematografiche la colonna sonora perfetta.
"Wrecking ball" è una botta alla bocca dello stomaco, una collezione di liriche potentissime e inequivocabili, una galleria dei consueti protagonisti springsteeniani che stavolta sono sospesi nel tempo perchè, anzichè rappresentare l'ordinary Joe o celebrare l'eroismo della vita quotidiana, costruiscono la metafora dei killer sociali contro i quali Bruce punta il dito e batte il pugno. Come lo spiantato di "Easy money". Vestito a festa, pronto a fiondarsi in città con la sua ragazza agghindata in abito rosso e una Smith & Wesson in mano, è semplicemente un rapinatore senza scrupoli: c'è differenza tra un bandito da Far West e un banchiere di tre anni fa? No. Perchè cambia lo scenario, ma il contesto è lo stesso, un’America lacerata. Springsteen costruisce l'atmosfera con una miscela country-folk-celtica, con suoni da frontiera, violini ora in sottofondo ora in primo piano, battimano da saloon. Paiono immediatamente lontani i tempi di Brendan O'Brien, qui sembra quasi che Ron Aniello abbia voluto far subentrare la E Street Band solo in un secondo momento. Sono quindi brani solisti suonati da una grande band, il cui consueto wall of sound riemerge anche intorno a pezzi nati per essere spogli. Testato dalle 'Seeger sessions', Bruce Springsteen sa come maneggiare anche la parte più recondita dell'American Songbook, conosce i punti di congiunzione tra una melodia redneck e un gospel viscerale, e ce lo dimostra nella stupenda "Shackled and drawn". E' una produzione che tende a sottrarre, forse anche perchè sarebbe sconcio arrangiare troppo intorno a canzoni come questa e come "Jack of all trades", l'uomo per tutte le stagioni che, dato che 'the banker man grows fat and the working man grows thin', se avesse una pistola 'sparerebbe a vista a quei bastardi' - e qui finalmente la Telecaster si riprende la scena e chiude la ballata in un crescendo lancinante.
"Death of my hometown" suona come una parata nel giorno di San Patrizio a New York ma pone la domanda dell’uomo semplice: come è possibile che senza bombe, senza spari, senza dittatori abbiano potuto portare la morte nella mia città? Il Boss è incazzato seriamente. Se il dopo-11 settembre era stato una resurrezione, qui siamo in mezzo al guado della sofferenza; prima di arrivare a "The rising" bisogna semplicemente "mandare i baroni ladri dritti all'inferno". L'obiettivo è il mondo della finanza e delle banche, ma il vero cancro è stato causato da strati di avidità e da decenni di dissoluzione dello stato sociale che a quel mondo hanno spalancato le porte e hanno lasciato mano libera. "This depression” sancisce il punto più basso della condizione americana nei nostri anni Dieci: 'mi è già successo di sentirmi giù e perso, ma mai così; la mia fede aveva già vacillato, ma non mi ero mai sentito senza speranze; in questa depressione ho bisogno del tuo cuore". E' un altro rocker atipico, durissimo ma lento, sincopato, nel quale la granitica base ritmica finisce col cedere il passo a una chitarra così ipnotica e ululante da suonare niente affatto springsteeniana. Sarà la suggestione, ma quando arriva la title track si nota che il pezzo appartiene ad altro in termini di umore, di suono, di atmosfera; quella della palla da demolizione è una metafora molto più classica rispetto alle immagini crudissime della maggior parte di questi pezzi. E il concetto vale anche per la musica: in "Wrecking ball", alla fine, comandano l'organo e il finale è quasi festoso, affidato ai fiati; anche la band pare più organica, meno sovrapposta.
"You've got it" è il mio brano preferito. E' apparentemente il più semplice e meno impegnato ma, forse, è quello che contiene la soluzione. L'incipit acustico, il crescendo elettrico, una sezione fiati al top, una potenza esplosiva trattenuta sapientemente, una ballata intensa, la voce che ti entra dentro. E' la canzone d'amore dell'album, ma non è una 'love song'. Un pezzo elegantemente grezzo, di classe, il genio di chi sa mescolare l'amore quintessenziale con quello sensuale: "tu ce l'hai, baby: dammelo; nessuno può rubarlo, romperlo, fingerlo, lo riconosci quando lo senti; non puoi leggerlo, non puoi sognarlo: lo riconosci quando lo vedi; è l'amore, non so di cosa l'abbia fatto Dio". Finalmente una tensione positiva, finalmente la redenzione è di nuovo possibile.
La sorpresa che non potevi aspettarti arriva con il loop elettronico e ipnotico che lancia "Rocky ground": presto quel loop cederà spazio a un fantastico cantato femminile e lascerà che, di nuovo, sacro e profano si incrocino senza problemi: l'intermezzo rap e l'atomosfera hip hop declinano meravigliosamente verso un finale puramente gospel.
"Land of hopes and dreams", il secondo non-inedito insieme alla title track, al pari di quest'ultima tradisce il suo dna diverso rispetto alla genesi complessiva dell'album. E' un treno che trasporta vincitori e sconfitti, suonano le campane della libertà e, nota struggente, squilla l'assolo di Clarence. E' un momento toccante e dal vivo farà scorrere molte lacrime.
"We are alive", che chiude l'album con uno scenario da camposanto, è in realtà un gioco di contrasti e regala l'immagine della forza dei padri finiti sottoterra ma ancora vivi nello spirito: "sono solo i nostri corpi a tradirci, alla fine", ci insegnano, come a ricordarci che le battaglie condotte e gli esempi restano per sempre, che chi se ne è andato continua a esigere rispetto per la memoria di sè e delle cose fatte.
Il 2012 ritrova Bruce Springsteen in stato di grazia e ci consegna il suo album più politico di sempre - più scuro di "Darkness", infinitamente più disilluso di "The river", straordinariamente contemporaneo laddove 'Tom Joad', che dell'"altra" Depressione era intriso, era stato evocativo.
E' l'anno delle elezioni e i suoi testi sono vividi: le immagini - nitide e sgradevoli se serve - contano più dei personaggi, il bersaglio è a fuoco, il Boss lo paragona ai banditi di frontiera del tardo Ottocento e spara ad alzo zero, incurante di democratici e repubblicani che si contenderanno una fetta del suo patriottismo.
E' anche l'anno della recessione che tenta di svanire, ma "Wrecking ball" romba e suggerisce di non fidarsi: aggrappata allo spirito delle radici per esprimere la rabbia e l'indignazione, evoca i toni sinistri della Guerra Civile e, a tratti, suona nuda come l'ultimo Cash con Rick Rubin alle spalle: l'attitudine punk non teme il country sullo sfondo.
E', per concludere, pure l'anno del tour che succede a quello straordinario del 2009 - ma è il primo senza Clarence. Springsteen chiederà il migliore rock and roll show alla E Street Band, grazie a un'infusione di hard folk.

(Giampiero Di Carlo)

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