27 marzo 2012

ROCKOL INTERVISTA PAUL WELLER

Rilanciamo la bella intervista rilasciata da Paul Weller al sito rockol.it in occasione dell'uscita del suo ultimo album Sonik Kicks. Vi consigliamo di leggerla fino in fondo, è davvero molto interessante.   

 26 mar 2012 - Doppiopetto, cravatta, pochette nel taschino. A Milano, e sul palco della Roundhouse di Londra, Paul Weller si presenta vestito di tutto punto come sulla copertina di "Sonik kicks", il nuovo album che esce nei negozi italiani oggi, 26 marzo. E' l'occasione e lo spunto per una lunga chiacchierata faccia a faccia  in cui il "Modfather" racconta molto del disco ma anche di sé, del suo nuovo stile di vita, della sua scarsa nostalgia per il passato, di amori musicali passati e recenti...


 




Il tuo nuovo album, "Sonik kicks", sembra in un certo senso complementare al precedente "Wake up the nation". Una sorta di evoluzione, con un'inclinazione ancora più sperimentale.

In un certo senso è così. Ma è anche un disco differente da "Wake up the nation", e non credo ci sia in giro qualcosa che gli somigli. A me sembra unico, diverso. Alle mie orecchie suona come musica del ventunesimo secolo.


"22 dreams", l'album che hai pubblicato nel 2008, sembra avere segnato un punto di svolta nella tua carriera. Il momento in cui forse hai cominciato a pensare che potevi prenderti più libertà.


Penso di sì. Per me la cosa importante è evolversi, progredire.  Con i miei ultimi tre dischi ho cercato di comprendere quali altre possibilità ci fossero nell'ambito della mia musica. Ho provato a uscire dal mio recinto per dimostrare - soprattutto a me stesso -  che è possibile fare qualunque cosa, o quasi. In "Sonik kicks", in effetti, mi sembra ci sia più sperimentazione. Ho voluto capire fino a che punto potevo spingermi. E poi c'è il fatto che continuo ad ascoltare generi di musica differenti. Anche questo ha avuto la sua influenza.


C'è una forte componente elettronica. Tu stesso citi i tedeschi Neu! tra le tue fonti di ispirazione...


Sì. Non in tutto l'album, però, diciamo in un paio di canzoni. Soprattutto dal punto di vista ritmico, con quel loro caratteristico beat noto come 'motorik'. Ho cominciato a comprare compilation di musica elettronica dei primordi, cose degli anni Trenta e Quaranta. Musica sperimentale molto antica, Un'altra influenza rintracciabile nel  disco, credo.


Le differenze con gli album precedenti non riguardano soltanto il suono. Si direbbe che tu abbia  cambiato anche il modo di scrivere canzoni.  


Negli ultimi due dischi è stato sicuramente così. Avevo sempre scritto canzoni in modo molto tradizionale, alla chitarra o al pianoforte. Scrivevo un pezzo completo e poi lo portavo alla band perché lo suonasse o al produttore per lavorarlo in studio. Ma lo stampo della canzone era già stato modellato, si trattava eventualmente solo di migliorarla. Stavolta invece non ho composto nulla prima di entrare in studio, ho creato sul posto. E' un modo più spontaneo di lavorare che a volte produce grandi risultati e altre volte non ti porta da nessuna parte. Volevo andare alla scoperta di forme e metodi di scrittura differenti. E' liberatorio, per chi come me scrive canzoni da tanti anni. Sto cercando altri modi per farlo.


In "Sonik kicks" compaiono alcuni 'soliti sospetti': Steve Cradock, Noel Gallagher, Graham Coxon...La cosa strana è che li hai spinti a fare cose diverse dal solito, a suonare strumenti diversi da quelli che usano abitualmente.


E' così. Graham Coxon ha suonato l'organo Hammond e per lui era la prima volta.  In molte canzoni Steve Cradock suona la batteria...Si tratta di vedere che cosa capita se ci si mette a suonare in modo diverso dal solito. A noi musicisti serve per conservare interesse in quel che facciamo.  


Sembra esserci molta meno chitarra che nei dischi precedenti...


In realtà  ci sono molte chitarre nel disco, io le ho usate spesso. Solo che hanno un suono diverso  dal solito: ci sono molti effetti, e a volte sembra di sentire dei sintetizzatori.


"Sonik kicks" è in un certo senso anche un album di famiglia. Ci cantano tua moglie Hannah e due dei tuoi figli. Mentre un'altra figlia, Jesamine, è citata nei crediti di una canzone, "Dragonfly". Com'è successo?  

Jesamine aveva scritto una poesia con quel titolo, credo si trattasse di un compito per la scuola.  "Lei è come un cavallo senza cavaliere/è come un mondo senza gente" sono versi che  ha scritto di getto, senza pensarci sopra, e che io ritengo bellissimi. Mi sembra che trasmettano un senso di  innocenza: così ho deciso di usarli come spunto per svilupparli in altre direzioni. In studio si è creata un'atmosfera che ci spingeva a provare qualunque cosa.


Il tuo home studio, il Black Barn?  


Sì, e avere un proprio studio a disposizione ovviamente aiuta. Arrivano gli amici, arrivano i familiari... e qualcosa finisce sul disco.


E' stato difficile convincere i tuoi figli a cantare?  


Per niente, per loro è stata una cosa del tutto  naturale. Mia figlia Leah e il mio figlio più piccolo, Mac, cantano su un pezzo intitolato 'Be happy children'. Mac ha solo sei anni ma ama già la musica e cantare gli piace. Non c'è voluto molto a convincerli, no.


Quanti figli hai?


Sette.


Gli ultimi due gemelli si chiamano Bowie e John Paul: in omaggio al Duca Bianco e ai Beatles?  


Ai Beatles, sì, ma anche a mio padre che si chiamava John. Amo
David Bowie, lo considero un grande artista. Ma è mia moglie la più grande fan in famiglia ed è stata lei a scegliere il nome. Ne abbiamo scelto uno a testa.

Mi sembra di sentire un che di bowiano nel nuovo singolo, "That dangerous age"...


Certamente. Mia moglie ascolta molto spesso la sua musica. Personalmente apprezzo soprattutto il suo album del '77, "Low",  che è uno dei miei dischi preferiti di tutti i tempi. Di quell'album mi piace molto  l'attitudine sperimentale. E sicuramente ne sono stato influenzato.


C'è molta varietà stilistica, nel disco.  L'arrangiamento per voce, chitarra acustica ed archi di "Down by the waters" ricorda Tim Hardin. Oppure quel che Robert Kirby faceva con Nick Drake, David Bedford con Roy Harper.   


L'elemento folk è sempre presente nella mia musica. In quel pezzo mi sono ispirato esplicitamente a "River man" di
Nick Drake: ho cercato di catturare lo spirito di quell'arrangiamento, il suo tono ombroso e l'impeto di quegli archi.  Mi piacciono gli arrangiamenti dei suoi dischi, quel loro suono classicheggiante.

"Study in blue", invece, è un pezzo molto lungo che si sviluppa su una base dub. Abbastanza inusuale, nella tua produzione.


No so che dire, è venuta fuori così. Ma ho sempre ascoltato il dub e il reggae, sono generi molto radicati nella cultura musicale britannica. La lunga coda dub finale è frutto di un'improvvisazione di studio: come gran parte del disco, a ben vedere. Abbiamo registrato  a blocchi, due o tre giorni per volta. Il lavoro in studio è stato molto intenso, abbiamo cercato di incidere più materiale possibile. Poi lo abbiamo riascoltato e abbiamo deciso come editarlo.  


Chi c'era in studio con te? Qual era il gruppo base?


Stavolta non c'è stato un gruppo vero e proprio. Steve (Cradock) era quasi sempre presente... ma principalmente si trattava di me, del coproduttore Simon Dine e di un paio di tecnici del suono. Davvero un piccolo team. Ho suonato personalmente un sacco di strumenti, chiamando di tanto in tanto qualcuno a dare una mano.


Con quale band ti esibisci dal vivo? La stessa del tour precedente?


Sì, la formazione è identica ma con un musicista in più perché in alcune canzoni ci sono due batterie. Dal vivo cerchiamo di replicare il più possibile il suono del disco.  


Man mano che passano gli anni sembri sempre più disposto a lasciare che la tua musica venga manipolata da altri. La collaborazione stretta con Simon Dine, i remix raccolti nel bonus disc di "Wake up the nation" e quelli  realizzati per "Sonik kicks" sembrano indizi di una maggiore apertura alle collaborazioni.


E' interessante osservare la tua musica dal punto di vista altrui. Lasciare mano libera ad altri musicisti e vedere che cosa ti torna indietro. A volte funziona, a volte no. Credo che tu abbia ragione, negli ultimi anni mi sento molto più disposto a collaborare con altra gente, a confrontarmi con le idee altrui. Quand'ero giovane ero molto più possessivo, non volevo che nessuno entrasse in quello che ritenevo essere il mio territorio. Con gli anni ho imparato ad aprirmi e a condividere la mia musica.

"Be happy children" e "Study in blue" sono canzoni d'amore piuttosto dirette. Altre volte i testi del disco hanno un tono molto più astratto, quasi impressionistico:  "Green", per esempio, con quelle immagini in rapida sequenza... Anche questa è una novità nel tuo modo di comporre.
Vero, è il motivo è sempre lo stesso:  sto cercando di conservare interesse per la scrittura. Non solo sotto il profilo musicale ma anche in relazione ai testi e alle parole. In questo disco mi sono messo alla prova con  alcune canzoni di taglio più impressionista, creando sequenze di immagini astratte e apparentemente scollegate che poi ho cercato di incollare per dar loro una qualche forma compiuta.  Faccio questo mestiere da tanto tempo, è facile rimanere intrappolati nella routine. Sto cercando il modo di uscirne, di andare oltre il mio modo tradizionale di esprimermi.

"When your garden's owergrown" è parzialmente ispirata alla figura di Syd Barrett...


Sì, ho cercato di immaginare come sarebbe stata la sua vita se non fosse diventato un musicista e non si fosse unito ai Pink Floyd. Se invece se ne fosse andato in giro per l'Europa a dipingere e a vivere una vita più felice. E' anche il mio modo di rendergli omaggio. Sono un suo grande fan dal 1967, dai tempi di singoli come "See Emily play".


Qualcuno ha sostenuto che in "Paper chase" tu abbia voluto ricordare Amy Winehouse.  


Quella canzone parla dei momenti bui della vita. Di quando esageri con l'alcool e con le droghe e finisci per vivere in una bolla. Senza vedere tutto quel che ti sta intorno, senza accorgerti delle persone che ti amano e a cui fai mancare la tua presenza. Non te ne accorgi perché sei totalmente assorbito dalla tua condizione. Può riguardare un sacco di gente, e sicuramente ha a che fare con certi periodi della mia vita. Qualcuno ha suggerito il nome di Amy Winehouse, ma non era a lei che pensavo mentre la scrivevo. Pensavo piuttosto a me stesso.


Ti sei mai sentito preso in quella trappola?


In passato, sì. Ma non oggi. Non prendo più droghe e ho smesso di bere circa sedici mesi fa. C'è voluto un po', ma all'improvviso è come se il mondo mi fosse riapparso davanti agli occhi. Compresi quei piccoli dettagli che quando sei sbronzo non vedi e di cui a un certo punto senti la mancanza. E' come vivere una sorta di risveglio.


E' una scelta che ha a che fare con le tue crescenti responsabilità di genitore? O con episodi di cattiva pubblicità come quel celebre episodio di  Praga finito su YouTube?


No, di quello non me ne frega un cazzo. L'ho fatto per motivi personali. Per spirito di autoconservazione. Ho pensato che se volevo vivere altri dieci o vent'anni dovevo smettere, e subito.


Che ricordo hai della Winehouse? Come hai reagito alla notizia della sua morte?


Purtroppo ce lo potevamo aspettare, dato il suo stile di vita. Quando è successo mi trovavo in vacanza in Spagna con la famiglia. E' stata mia moglie a dirmelo e la notizia mi ha rattristato profondamente. Era un gran talento naturale,ed è stata una grande perdita: per suo padre e per sua madre, prima di tutto, ma anche per i suoi tanti fan e per il mondo intero. Anche lei  sapeva comunicare con la gente. Ci siamo incontrati un paio di volte, non la conoscevo così bene ma era bravissima. Quando apriva bocca per cantare capivi che stava succedendo davvero qualcosa.



Non c'è Bruce Foxton, nel disco nuovo. Ma siete rimasti in contatto, dopo il riavvicinamento ai tempi di "Wake up the nation"?


Sì, e ogni tanto ci sentiamo. Abbiamo ripreso i contatti, siamo di nuovo amici e ne sono felice. Ci siamo visti prima di Natale, ho suonato un po' di tastiere sul suo nuovo album solista. Ma questo è quanto.


E' ben nota la tua contrarietà a una reunion dei Jam. A proposito, hai letto il libro di Simon Reynolds, 'Retromania'? La sua tesi è che guardarsi indietro sia l'elemento caratterizzante della scena pop e rock odierna...


Non ho letto il libro che citi ma la mia impressione è che ogni volta che ci si trova in un periodo di recessione, di crisi e di difficoltà economica le persone  cerchino di aggrapparsi a ciò che dà loro sicurezza, a quello che conoscono già. Credo che sia questa la causa scatenante della  nostalgia: la gente ha timore del nuovo, ha paura  di cambiare.  Eppure il cambiamento è essenziale, per gli esseri umani. Ogni due o tre anni è giusto cambiare qualcosa nella propria vita. Certo, sono tempi duri...le radio inglesi, per esempio, sono estremamente prevedibili: trasmettono musica degli anni Ottanta o le hit da Top Ten, nessuno si prende il rischio di programmare qualcosa di nuovo, di innovativo. E' una situazione deprimente. E ci sono un sacco di band che tornano insieme dopo venti, venticinque anni e occupano tutti gli spazi, togliendoli ai gruppi nuovi. Sto aspettando che qualcuno  punga questa bolla con uno spillo e la faccia esplodere. Che si torni ad occuparsi di quel che succede qui e ora.


Gli anni Ottanta, in effetti, sono tornati di moda. Ed è tornata di moda persino Margaret  Thatcher, dopo l'Oscar che Meryl Streep ha vinto per l'interpretazione di  "The iron lady": proprio lei, la signora di ferro che tu hai combattuto ai tempi dello sciopero dei minatori e del Red Wedge.


Mi sembra che qualcuno voglia riscrivere la Storia. Improvvisamente la Thatcher riappare come una donna politica forte e intelligente. Io non me la ricordo affatto così: me la ricordo come una nemica della classe lavoratrice che noi cercavamo di dileggiare. Credo che questa riabilitazione sia il frutto di una memoria selettiva. Oggi i media, la radio e la televisione inglese sono controllati in gran parte da una generazione di quarantenni che sono stati ragazzi negli anni Ottanta  e che a quell'epoca hanno iniziato ad ascoltare la musica pop, facendo il loro ingresso nella cultura giovanile. Gli Ottanta sono la loro epoca, ma non la mia: a me quel decennio non è piaciuto per niente. C'era buona musica, come in qualunque altro periodo, ma è stato davvero un periodo di merda. Politicalmente, culturalmente e anche dal punto di vista della moda è stato una porcheria.


In "Wake up the nation" ti sei espresso criticamente anche nei riguardi della realtà odierna. Il sonno delle coscienze, la mancanza di comunicazione nell'era dei social network...


E' vero, anche se sono felice di essere ancora in circolazione e di vivere questi tempi. Non sono uno di quelli che vorrebbero ritrovarsi nel 1959, o nel 1982. Sono felice di essere qui, nel 2012. Il mondo è turbolento, certo, è in uno stato di caos. Ma è sempre stato così, non ricordo di averlo mai visto diverso. Ci sono aspetti dei social newtork che non mi piacciono. Tuttavia diventano utili, un vero strumento di comunicazione, quando diffondono via internet filmati su quel che succede in Siria o in Libia. Non sono così stupido o cieco da essere contrario alla tecnologia: ma passare tutta la vita davanti a Facebook o a comunicare con amici persi nello spazio non mi sembra una cosa tanto raccomandabile. In ogni tecnologia c'è il buono e il cattivo: si tratta di prendere il meglio e di scartare il resto.


E dello stato del music business che ne pensi?


Perché, esiste ancora un music business?


Beh, Adele ha venduto 15 milioni di dischi o forse più...Qualità o marketing?


Per me è una grande artista. Belle canzoni, grande cantante. E' una persona vera, che appare per quel che è, e questo le permette di comunicare con il pubblico. Il motivo principale del suo successo sono le canzoni. Non credo c'entri molto, il marketing. E' una delle poche artiste di oggi che ha successo solo grazie al suo talento. Non punta su un aspetto sexy, canta e basta. Ed è un bel modello per le aspiranti cantanti che verranno dopo di lei.


Torniamo all'industria musicale. Sei preoccupato di come stanno le cose?


Che ci posso fare? La gente continuerà ad ascoltare musica, a comprarla e ad andare a vedere gli artisti suonare dal vivo. Una volta aperta la porta del download non puoi scappare, devi affrontare la situazione. Adattarti, cambiare. Certo è un mondo completamente diverso da quello che ho conosciuto quando,  da ragazzo, firmai il mio primo contratto con una casa discografica. Ma questo non mi fermerà dal fare musica, probabilmente mi costringerà solo a fare scelte  diverse. Quel che mi manca è il possesso della copia fisica del disco. Osservo le mie figlie di sedici e dodici anni e mi accorgo che ascoltano la musica a sprazzi.  Di un album ascoltano solo una canzone o due, e poi passano ad altro. Non coltivano la passione per gli album come facevamo noi.


Ti disturba che qualcuno - a partire dalle tue figlie - possa ascoltare un tuo disco in questo modo?


Sì, anche se in fin dei conti è meglio che ascoltino una canzone piuttosto che nessuna...Ma è come vedere un frammento del dipinto invece della tela intera. E' come leggere una pagina a caso di un libro, o la sinossi in ultima pagina. Ed è un peccato perché si perde molto.  I ragazzi oggi hanno molte più distrazioni, molte più alternative: nei Sessanta e Settanta avevi soltanto due opzioni, la musica e il calcio. Non c'era altro, mentre oggi ci sono gli sms,  internet e Facebook. Non mi sembra che per questa generazione la musica abbia lo stesso valore che aveva per noi. Lo stesso significato, la stessa importanza socioculturale. Io sono cresciuto in quel mondo, credevo nella musica e ci credo ancora.

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