ECCOVI UNA BELLA RECENSIONE DI UN NUOVO ALBUM DI UN MUSICISTA MODENESE CHE MERITA TUTTA LA VOSTRA ATTENZIONE. MATTEO E' UN OTTIMO CHITARRISTA SLIDE E SCRIVE TESTI INTELLIGENTI (IN ITALIANO, COSA DA NON SOTTOVALUTARE PER CHI FA COSE COME LE SUE). "SANTA PACE" MERITA TUTTE LE LODI CHE GLI VENGONO FATTE, NON SOLO PERCHE' MATTEO E GIULIO (IL SUO VALENTE BATTERISTA) SONO AMICI, MA PERCHE' NEL PANORAMA ITALIANO HANNO UNA PROPOSTA INTELLIGENTE, INNOVATIVA E CORAGGIOSA.
Matteo Toni
Santa Pace
Matteo Toni è un ragazzone modenese di 37
anni che ama stare accoccolato su uno sgabello, meglio a piedi
nudi, con una slide guitar posata sulle gambe.
Quest’immagine, in Italia, è una rarità pressoché assoluta:
all’orecchio, poi, la singolarità è ribadita. Evadendo dai
confini della penisola, al contrario, l’accostamento
(ingombrante) con Ben Harper
è facile, inevitabile; fare di Toni un mero discepolo
dell’americano, tuttavia, sarebbe scorretto, oltre che
fuorviante. Il gravoso raffronto calza solo di rado: nei momenti
dal respiro soul-rock, in alcuni arpeggi più limpidi.
Ma Matteo Toni e il batterista Giulio Martinelli – che
manifestano la loro arte in italiano, e questa è già una
naturale differenza di non poco conto – esplorano personali,
specifici orizzonti, colorati da tonalità nuove. Il
paragone con Harper fa parte, dunque, di un giochino puerile
che si serve del confronto come esclusiva occasione di
classificazione o di eventuale screditamento, senza
comprendere che un’ispirazione, poi, può intraprendere
percorsi propri.
Il primo ep di Toni, uscito nel 2011, contava
cinque soli brani, un assaggio. Denotava una materia grezza,
acerba, che necessitava ancora di plasmarsi, prendere forma,
assumere contorni: pur rimanendo nel medesimo solco, Toni
giunge perciò a quasi completa maturazione con il nuovo disco, Santa Pace, rafforzando la sua ricerca di “calma interiore”, la stessa che lo spinse ad abbandonare il suo progetto precedente (i Sungria), dedito al funk-reggae. Santa pace come il terzo brano dell’album, ma anche come “Preghiera alla tranquillità di vivere le cose”,
nella loro immediatezza e nella loro veste essenziale: una
vagheggiata semplicità pervade infatti tutto il disco, si
riverbera di continuo nelle armonie e nei concetti. Dalla
miscela di ingredienti in possesso di Toni e Martinelli – si
va dal reggae al rock più puro, con un pizzico di blues e di pop –
potrebbe nascere un piatto troppo farcito, perciò anonimo e
insapore. Il dosaggio degli elementi è invece misurato con
sapienza: l’esito è una pietanza agrodolce, delicata o
esplosiva a seconda dei momenti. Questa consapevole
bivalenza, presente talvolta all’interno di uno stesso brano,
non è male amalgamata: i tratti luminosi, raggianti (nella
musica e nelle liriche) lasciano il posto a temi più cupi,
sporchi e sabbiosi senza che questo scarto crei eccessivo
disorientamento.
È con la seconda parte del disco che atmosfere
distese e melodiche soppiantano le tracce ruvide e
viscerali che imperavano agli inizi. La voce spesso tremante,
affiatata coi vibrati della chitarra, si libera in testi senza
fronzoli, disincantati e quasi timidi, che però scansano
abilmente banalità in questi casi sempre dietro l’angolo.
Perciò ballate quali Alle quattro del mattino (continuazione del pezzo precedente) o Acqua del fiume
non sono mai brani piatti e scontati, anzi si collocano tra gli
episodi migliori dell’intero album. Eppure gli echi ruvidi e
surreali (Bruce Lee vs Kareem Abdul-Jabbar) e i respiri blues di Isola nera aprono prepotentemente il disco. Il brano omonimo dell’album, assieme Alle quattro del pomeriggio,
rivela l’afflato reggae appartenente al retaggio di Toni,
che poi si perde nella meraviglia e nello stupore dei ricordi (I provinciali di nuoto). Slide evocativi, invece, coronano la fluttuante Melodià e il finale scintillante di Fidati. Nel grande congedo, Il canto di Valentina,
Toni invoca “pazienza” e “speranza”: sono entrambe doti che
egli dovrà coltivare per affiorare da un panorama musicale
italiano a tratti troppo spento e asfittico. La luce accesa è
quella buona, la sua musica è qualcosa di diverso, di
inconsueto, che non imbocca strade battute (potrebbe anzi
fabbricarne di nuove), ma calca sentieri insoliti. E lo fa a
piedi nudi, con una chitarra slide sulle gambe, la voce
tremante e talvolta con un’armonica in bocca, in quella
pacifica semplicità che a volte è migliore di ogni orpello.
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