SE NE PARLASSI IO NON SAREI OBIETTIVO, TROPPO L'AMORE CHE IN GIOVENTU' (E NON SOLO) HO AVUTO PER GLI SMITHS. QUINDI LASCIO PARLARE LA BELLA RECENSIONE DI DAVIDE SECHI SUL SITO "ONDAROCK".
Londra, agosto 1994, nei
pressi di Holborn Station, due giovani si mangiano con gli occhi la
vetrina di un negozietto dedito al jazz. D’un tratto, dietro di loro, si
staglia la figura di un signore discretamente nascosto da un paio di Ray-Ban.
Pochi istanti, il dubbio, la sorpresa, il sussurro “Oh, ma è Johnny
Marr?!”, la repentina richiesta di chiarimento verso il tipo inchiodato
alle proprie responsabilità. E il tipo si dà alla fuga, discutibile,
clamorosa, anche comica. John Martin Maher, alias Johnny Marr, alias fine tessitore di professione chitarrista, non ha mai spasimato per le smancerie tipiche della stardom pop; ai tempi della partnership smithsiana,
i propositi di simil-carboneria furono scambiati, a seconda dei punti
di vista, come una rilettura dei sogni di purezza o come una scelta di
carattere snobistico. All’alba della primavera 1987, mentre Morrissey aveva già deciso di far fruttare in maniera più convinta il suo ciuffone rockabilly, Marr cominciava a indossare sempre più frequentemente le sue pantofole union jack.
Casa dolce casa, tranquillità, una pinta ogni tanto, e quella chitarra
tanto applaudita da prestare ad amici e semplici ammiratori.
Chi ha tempo non lo aspetti all’infinito, ma Johnny s’era già rotto le scatole di proverbi e di figure sagge. Venticinque anni a gironzolare ovunque, incarnando l’immagine di session-man prezioso, figura di fatto mai decollata in Gran Bretagna; da quelle parti preferiscono sostare dalle parti del dilettantismo, anche quando non è vero, anche quando si tratta di Johnny Marr, lo scoperchiatore della deriva synth, il rivitalizzatore della tradizione sixties, l’ex-ragazzo che fa parlare solo le sue corde e poi scappa a casa dalla moglie. E invece, e chi se l’aspettava più, ecco arrivare un lavoro a firma Johnny Marr, un vero e proprio debutto solista. Non una semplice cartolina di saluti, ma una lunga lettera confessione, il racconto di una vita, 30 anni di passioni, di apprendimenti e insegnamenti, la fotografia nitida, ricca di particolari della variegata stagione del cosiddetto indie-pop rock. Una celebrazione ma di quelle intelligenti e dannatamente ispirate. Tanta, tantissima chitarra, stordente ma mai volgare, mai fine a se stessa, sempre al servizio del canzoniere.
Dodici pezzi e mai una caduta di tono, e la cosa assume i connotati della sorpresa, anche perché l’ex-outsider se li canta da solo e non sfigura. Una spolverata di grande musica pop, in cui si parla la lingua del post-punk, del northern soul, dove affiorano sorprendenti richiami meccanico-sintetici, dove si può ballare senza vergognarsi per un’età non più verdissima. Marr che sceglie l’arma dell’autoironia e si dichiara il Messaggero, parte in quarta e miracolosamente non si spegne mai: il ritmo battente, la voce sicura, le 12 chitarre sovra-incise dell’opening track “The Right Thing Right”, palesano sin dalle parole la sicurezza degli intenti; l’insistenza declamante di “I Want The Heartbeat” risucchia l’ascoltatore all’interno di una spirale fatta di furore agonistico dalle idee però mai annebbiate, dove l’ex-socio di Moz sbraita elegantemente alla Adrian Belew e illustra qualche modo differente per accompagnare con le chitarre una canzone.
Poi, ovviamente, un lungo excursus lungo la storia della popular music britannica, condito da spettacolari aperture melodiche e rilanci corali da pelle d’oca (“European Me”), spinte rock apparentemente brutali ingentilite da un dandysmo mai tramontato (“Upstarts”), antiche beatlesate macchiate da vetusta ma sempre saporita spezia wave (“Word Starts Attack”, con riff richiamante i Ferdinand e solo spazzola tutto che applaude The Edge), l’ultima idea, in ordine di tempo, di discoteca brit che affiora in “Generate! Generate!”, l’omaggio al Bernard Sumner più acustico in “New Town Velocity”, “la Manchester che diventa Madchester e forse è anche merito mio” della superba title track, con quattro corde in ottave disco e chitarre futuristiche, la tetra, teatrale, progressiva in termini di intensità crescente “Say Demesne”, base synth e vocalità assortite, da Peter Murphy a Richard Butler, passando per il Bono berlinese. Scusi ma… lei è Johnny Marr? Altroché se lo sono!
Chi ha tempo non lo aspetti all’infinito, ma Johnny s’era già rotto le scatole di proverbi e di figure sagge. Venticinque anni a gironzolare ovunque, incarnando l’immagine di session-man prezioso, figura di fatto mai decollata in Gran Bretagna; da quelle parti preferiscono sostare dalle parti del dilettantismo, anche quando non è vero, anche quando si tratta di Johnny Marr, lo scoperchiatore della deriva synth, il rivitalizzatore della tradizione sixties, l’ex-ragazzo che fa parlare solo le sue corde e poi scappa a casa dalla moglie. E invece, e chi se l’aspettava più, ecco arrivare un lavoro a firma Johnny Marr, un vero e proprio debutto solista. Non una semplice cartolina di saluti, ma una lunga lettera confessione, il racconto di una vita, 30 anni di passioni, di apprendimenti e insegnamenti, la fotografia nitida, ricca di particolari della variegata stagione del cosiddetto indie-pop rock. Una celebrazione ma di quelle intelligenti e dannatamente ispirate. Tanta, tantissima chitarra, stordente ma mai volgare, mai fine a se stessa, sempre al servizio del canzoniere.
Dodici pezzi e mai una caduta di tono, e la cosa assume i connotati della sorpresa, anche perché l’ex-outsider se li canta da solo e non sfigura. Una spolverata di grande musica pop, in cui si parla la lingua del post-punk, del northern soul, dove affiorano sorprendenti richiami meccanico-sintetici, dove si può ballare senza vergognarsi per un’età non più verdissima. Marr che sceglie l’arma dell’autoironia e si dichiara il Messaggero, parte in quarta e miracolosamente non si spegne mai: il ritmo battente, la voce sicura, le 12 chitarre sovra-incise dell’opening track “The Right Thing Right”, palesano sin dalle parole la sicurezza degli intenti; l’insistenza declamante di “I Want The Heartbeat” risucchia l’ascoltatore all’interno di una spirale fatta di furore agonistico dalle idee però mai annebbiate, dove l’ex-socio di Moz sbraita elegantemente alla Adrian Belew e illustra qualche modo differente per accompagnare con le chitarre una canzone.
Poi, ovviamente, un lungo excursus lungo la storia della popular music britannica, condito da spettacolari aperture melodiche e rilanci corali da pelle d’oca (“European Me”), spinte rock apparentemente brutali ingentilite da un dandysmo mai tramontato (“Upstarts”), antiche beatlesate macchiate da vetusta ma sempre saporita spezia wave (“Word Starts Attack”, con riff richiamante i Ferdinand e solo spazzola tutto che applaude The Edge), l’ultima idea, in ordine di tempo, di discoteca brit che affiora in “Generate! Generate!”, l’omaggio al Bernard Sumner più acustico in “New Town Velocity”, “la Manchester che diventa Madchester e forse è anche merito mio” della superba title track, con quattro corde in ottave disco e chitarre futuristiche, la tetra, teatrale, progressiva in termini di intensità crescente “Say Demesne”, base synth e vocalità assortite, da Peter Murphy a Richard Butler, passando per il Bono berlinese. Scusi ma… lei è Johnny Marr? Altroché se lo sono!
(04/03/2013)
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