4 marzo 2013

STEVEN WILSON "THE RAVEN THAT REFUSED TO SING"

CON "THE RAVEN THAT REFUSED TO SING" STEVEN WILSON, MENTE DEI PORCUPINE TREE E DI UNA MIRIADE DI PROGETTI PARALLELI, SCRIVE UNA DELLE PAGINE PIU' BELLE DEL PROG-ROCK MODERNO. ODDIO, MODERNO PER MODO DI DIRE...IL DISCO E' UN SALTO INDIETRO DI 40 ANNI, AI SUONI DELLA TRINITA' PROG DEI PRIMI ANNI 70, GENESIS YES E KING CRIMSON. A MIO GIUDIZIO UN CAPOLAVORO, MA NON SOLO MIO COME POTETE LEGGERE NELLA BELLA RECENSIONE CHE SEGUE DI STEFANO FASTI DAL SITO ON LINE "STORIA DELLA MUSICA".


R Recensione

7,5/10

Steven Wilson

The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)

Sem­pre più de­ci­so a non di­sper­de­re le ener­gie messe in campo nel corso del suo primo tour da so­li­sta, cul­mi­na­to con la pub­bli­ca­zio­ne del ma­gi­stra­le do­cu­men­to live "Get All You De­ser­ve", e a non rom­pe­re le fila della su­per­la­ti­va li­ne-up che l'ha ac­com­pa­gna­to (ri­con­fer­ma­ti Marco Min­ne­mann alla bat­te­ria, Nick Beggs al basso, al Cha­p­man stick e alle voci, Adam Hol­z­man alle ta­stie­re e al piano, Theo Tra­vis al flau­to e al sax; viene la­scia­to a piedi il solo Niko Tso­nev, men­tre al suo posto sale sul bus il più ta­len­tuo­so chi­tar­ri­sta Gu­th­rie Govan), Ste­ven Wil­son mette su­bi­to a frut­to le idee svi­lup­pa­te du­ran­te il suo at­tua­le gi­ro­va­ga­re in un con­te­sto mu­si­ca­le de­ci­sa­men­te più vir­tuo­so di quan­to i Por­cu­pi­ne Tree si siano mai fatti por­ta­to­ri.
Con le can­zo­ni già in tasca, nel giro di pochi gior­ni di in­fuo­ca­te ses­sio­ni in stu­dio a Los An­ge­les con Alan Par­sons (pro­prio lui) alla regia, "The Raven That Re­fu­sed To Sing (And Other Sto­ries)" ha preso ra­pi­da­men­te forma. Quan­to emer­ge è an­co­ra di più ascri­vi­bi­le al Pro­gres­si­ve Rock “clas­si­ca­men­te in­te­so” ri­spet­to a quan­to co­strui­to nei due pre­ce­den­ti la­vo­ri in stu­dio: Wil­son pren­de le di­stan­ze anche dalle fe­li­ci in­tui­zio­ni trip-hop che pure con con­vin­zio­ne erano af­fio­ra­te sia in “In­sur­gen­tes” del 2008 che in “Grace For Dro­w­ning” del 2011 (ri­spet­ti­va­men­te i brani Aban­do­ner e Index), per but­tar­si a ca­po­fit­to nel mare pri­mi­ge­nio, col­lo­can­do le lan­cet­te della mac­chi­na del tempo fra il ‘70 e il ‘75 e pro­van­do a di­mo­strar­ci quan­to quel­le coor­di­na­te mu­si­ca­li pos­sa­no an­co­ra fe­li­ce­men­te espri­mer­si nel pre­sen­te, una volta tran­si­ta­te e cen­tri­fu­ga­te nel suo ca­lei­do­sco­pi­co “frul­la­to­re ce­re­bra­le”. Molto più mar­gi­na­le, ri­spet­to a quan­to ac­ca­du­to nel pre­ce­den­te opus, il back­ground Crim­so­nia­no: ma solo per­ché sta­vol­ta la na­vi­ga­zio­ne ha pro­ce­du­to su altre rotte, fra quel­le trac­cia­te nei Se­ven­ties da altri “ca­pi­ta­ni co­rag­gio­si”.
Lu­mi­nol (che ave­va­mo già in­con­tra­to in an­te­pri­ma nel tour dello scor­so anno) si apre con un intro clas­si­ca­men­te Yes-orien­ted (basso e cori in gran­dis­si­mo ri­lie­vo), a cui se­guo­no se­zio­ni che odo­ra­no, al­ter­na­ti­va­men­te, di Ca­ra­van, di jazz-rock, di Ge­ne­sis (di cui nel fi­na­le si ma­neg­gia­no le stes­se at­mo­sfe­re so­len­ni di Wat­cher Of The Skies), per con­clu­der­si in una apo­teo­si prog, con stra­ti spes­sis­si­mi di Mel­lo­tron (ciò che sen­ti­te è pro­dot­to da quel­lo che Ro­bert Fripp cu­sto­di­sce nella sua di­mo­ra), fan­ta­sma­go­ri­ci giri di piano, in­cur­sio­ni di flau­to e di sax, men­tre una ver­ti­gi­ne rit­mi­ca co­strui­sce una scala che ascen­de verso le alte sfere ce­le­sti. Nella parte cen­tra­le, più som­mes­sa, Wil­son mette nuo­va­men­te in evi­den­za la sua pas­sio­ne per i gio­chi co­ra­li che fu­ro­no di CSN&Y.
In Drive Home il mood ge­ne­ra­le (spe­cial­men­te nella strut­tu­ra, nel ri­tor­nel­lo e nel li­qui­do as­so­lo po­si­zio­na­to in chiu­su­ra), ri­cor­da dav­ve­ro molto da vi­ci­no quel­la Shed­mo­ve­don che era su “Light­bulb Sun” dei Por­cu­pi­ne Tree, anche se qui è tutto più ral­len­ta­to e av­vol­gen­te. L’in­tro­du­zio­ne ha un sa­po­re che me­sco­la sug­ge­stio­ni Ge­ne­si­sia­ne (o forse bi­so­gne­reb­be dire Hac­ket­tia­ne) e altre ti­pi­ca­men­te Wil­so­nia­ne. Non a caso que­sto è l’e­pi­so­dio del­l’al­bum più ri­con­du­ci­bi­le a “bal­lad spa­zia­li” come Stars Die e, in tempi re­cen­ti, come De­form To Form A Star (su “Grace For Dro­w­ning”). Ad ogni modo Drive Home po­te­va tran­quil­la­men­te es­se­re una nuova com­po­si­zio­ne della sua ex-com­pa­gi­ne.
The Holy Drin­ker: con­trad­di­stin­to da un in­ci­pit dav­ve­ro ri­bol­len­te dal sa­po­re molto jazz-prog-rock  (so­spe­so fra Re­turn To Fo­re­ver, Ma­ha­vi­snu Or­che­stra e Henry Cow) con Theo Tra­vis in vena di rug­gen­ti svi­sa­te al sax, si ri­ve­la es­se­re il più “obli­quo” brano del la­vo­ro, sol­ca­to da cori sug­ge­sti­vi, con Adam Hol­z­man dav­ve­ro pro­ta­go­ni­sta al piano elet­tri­co e al­l'or­ga­no, in par­ti­co­lar modo nella se­zio­ne con­clu­si­va. Nel corso dei suoi dieci mi­nu­ti tor­na­no alla mente i Deep Pur­ple d'an­na­ta (spe­cial­men­te quan­do le danze vol­go­no al ter­mi­ne), anche se nei fran­gen­ti più in­tri­ca­ti e ma­gni­lo­quen­ti a rie­cheg­gia­re sono gli ELP.
In The Pin Drop si ha l’im­pres­sio­ne, per l’an­da­men­to, per il ri­cor­ren­te ar­peg­gio di chi­tar­ra e per i cori, che il brano sia stato mo­del­la­to su Drown With Me dei Por­cu­pi­ne Tree (pre­sen­te sul bonus disc di “In Ab­sen­tia”). Una sot­ti­le ma­lin­co­nia in­cre­spa tutta la vena me­lo­dia su cui il pezzo è co­strui­to. Per forza di cose non è l’e­pi­so­dio più si­gni­fi­ca­ti­vo del la­vo­ro.
Con The Wat­ch­ma­ker (12 mi­nu­ti...) ci tro­via­mo di fron­te al pezzo car­di­na­le del la­vo­ro. Ad una parte ini­zia­le dal gusto Ge­ne­sis (con ri­fe­ri­men­to par­ti­co­la­re a For Ab­sent Friends, anche se è tutto “Nur­se­ry Cryme” del 1971 ad es­se­re preso come punto di ri­fe­ri­men­to), molto ma­lin­co­ni­ca ed eva­ne­scen­te, segue una parte dove Wil­son ci va giù pe­san­te nella ci­ta­zio­ne dei Pink Floyd. In que­sto fran­gen­te, si ri­cal­ca­no dav­ve­ro trop­po fe­del­men­te sia Shine On You Crazy Dia­mond Pt.V (al so­prag­giun­ge­re del­l’as­so­lo di sax), sia il mag­ma­ti­co in­ter­mez­zo stru­men­ta­le di Money. Suc­ces­si­va­men­te il piano pren­de il so­prav­ven­to e le voci (sem­pre molto in stile West Coast, se non ad­di­rit­tu­ra in odor di Beach Boys in con­tro­lu­ce) si apro­no a sce­na­ri in­va­si da un sole ab­ba­ci­nan­te. Il fi­na­le é te­sis­si­mo e punta di­rit­to in di­re­zio­ne sia dei Van der Graaf Ge­ne­ra­tor, sia dei Ge­ne­sis di The Foun­tain Of Sal­ma­cis.
A que­sto punto viene da pen­sa­re che la ti­tle-track possa co­sti­tui­re il mo­men­to più “ori­gi­na­le” del­l’in­te­ro disco, anche se in essa si rin­ven­go­no le ca­rat­te­ri­sti­che sti­li­sti­che di altre bal­la­to­ne si­de­ra­li del re­per­to­rio Wil­so­nia­no (Col­lap­se The Light Into Earth dei Por­cu­pi­ne Tree, ma anche il pezzo che da il ti­to­lo al­l’a­bum del­l’e­sor­dio so­li­sta).  Ad un in­tro­spet­ti­vo ini­zio, ba­sa­to su ip­no­ti­co fra­seg­gio di piano – su cui si erge un canto dalle mo­da­li­tà non trop­po dif­fe­ren­ti da quel­le di Thom Yorke quan­do è inar­ca­to sui tasti di ebano e avo­rio – su­ben­tra­no gli archi che “apro­no” il brano verso un fi­na­le “ascen­den­te” al modo in cui lo può es­se­re una Awa­ken o una Star­ship Troo­per degli Yes, tanto per pro­por­re un vago esem­pio.
Non è dato ca­pi­re quan­to Wil­son abbia de­le­ga­to al nuovo chi­tar­ri­sta, gli oneri che in pas­sa­to spet­ta­va­no a lui: a giu­di­ca­re dai video delle ses­sio­ni di re­gi­stra­zio­ne messi on-li­ne sul sito uf­fi­cia­le, sem­bra sem­pre più chia­ro che l’ar­gu­to mu­si­ci­sta si stia sem­pre più ri­ta­glian­do il ruolo di di­ret­to­re d’or­che­stra dei pro­fes­sio­ni­sti chia­ma­ti a dar voce alle sue com­po­si­zio­ni. Anche per­ché gli as­so­li di chi­tar­ra sono di­ve­nu­ti sem­pre più com­ples­si di quel­li che po­po­la­va­no i suoi pre­ce­den­ti la­vo­ri e dun­que, per quan­to Wil­son sia un ispi­ra­to e pre­pa­ra­to stru­men­ti­sta, dif­fi­cil­men­te po­treb­be con­dur­re le danze in que­sti pa­no­ra­mi mag­gior­men­te pro­te­si al vir­tuo­si­smo.
E ora viene il com­pi­to più dif­fi­ci­le: dare una quo­ta­zio­ne d’in­sie­me ad un album (ec­ce­zio­nal­men­te) suo­na­to e com­po­sto per sod­di­sfa­re qua­lun­que es­se­re umano esi­lia­to da que­sta terra in­tor­no al 1975 e ri­tor­na­to solo oggi nel suo pia­ne­ta natio. Ri­cor­da­te il film “Good­bye, Lenin!” nel quale per non trau­ma­tiz­za­re la madre ri­de­sta­ta da un lungo coma, il fi­glio si in­ge­gna a ri­co­strui­re le lo­ca­tion di vita quo­ti­dia­na della Ber­li­no prima della ca­du­ta del muro? Ecco, Ste­ven Wil­son com­pie un’o­pe­ra­zio­ne pres­so­ché ana­lo­ga (anche se con molto meno iro­nia), rea­liz­zan­do un’o­pe­ra di rara pre­ci­sio­ne nella ri­co­stru­zio­ne di un’e­ra mu­si­ca­le e riu­scen­do­ci me­glio di chiun­que sia ci­men­ta­to in un si­mi­le sfor­zo negli ul­ti­mi 30 anni. E, seb­be­ne il li­vel­lo di scrit­tu­ra sia co­mun­que molto alto, le ci­ta­zio­ni e i ri­fe­ri­men­ti si spre­ca­no. E così, a chiun­que sia vis­su­to dei gran­di ca­po­la­vo­ri degli Anni ’70, in di­ret­ta o in dif­fe­ri­ta, ri­sul­te­rà ini­zial­men­te dif­fi­ci­le con­cen­trar­si nel­l’im­ma­nen­te flus­so so­no­ro, tro­van­do­si a rin­cor­re­re i tanti echi che ad ogni piega si ri­ve­la­no al­l’a­scol­to. Tutti co­lo­ro che in­ve­ce, per la gio­va­ne età ma anche per altre ra­gio­ni, non siano così av­vez­zi con quel mondo e ab­bia­no vo­glia di at­tra­ver­sar­lo, al­lo­ra oggi sco­pri­ran­no di avere a di­spo­si­zio­ne una ag­gior­na­tis­si­ma mappa per gui­dar­li nel­l’im­pre­sa. La malia di “The Raven That Re­fu­sed To Sing (And Other Sto­ries)” è tal­men­te ben or­di­ta da in­si­nuar­si, anche al di là di ogni re­ti­cen­za, di ogni ra­gio­ne­vo­le dub­bio: così pur es­sen­do tan­gi­bi­li i li­mi­ti crea­ti­vi di un album sif­fat­to, il suo “me­ra­vi­glio­so peso” tende a ri­ve­lar­si un far­del­lo di cui è go­du­rio­so farsi ca­ri­co. Nei mo­men­ti in cui ci si ab­ban­do­na alla forza evo­ca­ti­va e alla fa­sci­na­zio­ne di que­sto “sunto (in­com­ple­to) della sto­ria del prog”, re­mo­re e in­cer­tez­ze sem­bra­no dis­sol­ver­si. Ma anche sot­traen­do le orec­chie al canto delle si­re­ne, la va­lu­ta­zio­ne del disco non può es­se­re pe­na­liz­za­ta ri­con­du­cen­do il tutto a mera sug­ge­stio­ne o a sem­pli­ce no­stal­gia.
Ri­cor­da­re quan­te volte fra fine Anni ’90 e ini­zio Anni 2000 Wil­son si é pro­di­ga­to nel met­te­re in guar­dia i suoi fan delle ope­ra­zio­ni tese a re­stau­ra­re pe­dis­se­qua­men­te l’era del prog e della psi­che­de­lia (in parte abiu­ran­do anche ciò che ave­va­no fatto i Por­cu­pi­ne Tree di “The Sky Moves Si­deways”), spin­gen­do­li a guar­da­re avan­ti, in­du­ce ad espor­re le odier­ne scel­te del com­po­si­to­re in­gle­se ad una ple­to­ra di in­ter­pre­ta­zio­ni (al­cu­ne delle quali non molto in­dul­gen­ti), te­nen­do in con­si­de­ra­zio­ne che ormai è anche di­ve­nu­to il guru  in­di­scus­so dei mix 5.1, of­fren­do i suoi ser­vi­gi a King Crim­son, ELP, Ca­ra­van, Je­th­ro Tull che hanno af­fi­da­to a lui il “re­stau­ro” dei loro gran­di ca­po­la­vo­ri.
Le esor­ta­zio­ni dello Ste­ven Wil­son tren­ten­ne pro­ba­bil­men­te ori­gi­na­va­no dai ti­mo­ri di ve­de­re an­nul­la­ta o anche solo ri­di­men­sio­na­ta la pro­pria po­lie­dri­ca va­len­za ar­ti­sti­ca (che per­se­gui­va at­tra­ver­so pro­get­ti anche de­ci­sa­men­te poco con­so­nan­ti fra loro: Bass Com­mu­nion, I.E.M., no-man...), alla luce di una in­cli­na­zio­ne pas­sa­ti­sta; ti­mo­ri ve­ro­si­mil­men­te av­va­lo­ra­ti da una serie di at­teg­gia­men­ti ben ri­scon­tra­bi­li nelle tri­bu­ne della mu­si­ca indie, oggi come dieci, venti o tren­ta anni fa. Ho spes­so po­tu­to con­sta­ta­re – e come l’ho fatto io, l’a­vrà sen­z’al­tro fatto Wil­son – quan­to fe­ro­ce­men­te ven­ga­no at­tac­ca­ti gli ar­ti­sti che si ar­ri­schia­no nel re­vi­val pro­gres­si­vo, ri­spet­to ai tanti che, a par­ti­re da ter­re­ni po­ve­ri di humus com­po­si­ti­vo, rie­sco­no a co­strui­re al­ti­so­nan­ti car­rie­re di agri­col­to­ri so­no­ri com­ple­ta­men­te al­l’om­bra di al­be­ri non meno se­co­la­ri an­naf­fia­ti di new-wa­ve, elet­tro­ni­ca, po­st-punk, in­du­strial, black music, folk (ame­ri­ca­no o in­gle­se). Ep­pu­re, in qual­che mi­su­ra, sem­bra sem­pre che chiun­que si im­pe­gni – con in­ten­zio­ni più o meno sin­ce­re – a ri­da­re nuove pro­spet­ti­ve di espres­sio­ne alla sta­gio­ne d’oro del Prog sia da squa­li­fi­ca­re a pre­scin­de­re, ri­con­du­cen­do l’o­pe­ra­zio­ne al­l’e­di­fi­ca­zio­ne di un tron­fio “Ju­ras­sic Park”, ri­spet­to alla ge­nui­ni­tà dei “giar­di­ni d’in­fan­zia” al­le­sti­ti dalle band di grido che ci ven­go­no se­gna­la­te dai siti “bene” del­l’In­ghil­ter­ra che conta.
Penso che l’era dei gran­di ma­sto­don­ti del prog (non tutti in­cli­ni ad adat­tar­si alle mu­ta­zio­ni am­bien­ta­li), ul­ti­ma­ta­si con il ca­ta­cli­sma cau­sa­to dal me­teo­ri­te punk, abbia spia­na­to la stra­da alla con­get­tu­ra co­mu­ne­men­te con­di­vi­sa che chiun­que torni ad as­su­me­re le sem­bian­ze di que­gli ar­cai­ci e ca­ra­col­lan­ti es­se­ri, me­ri­ti – oggi come al­lo­ra – un ana­lo­go “ab­bat­ti­men­to cul­tu­ra­le”: e poco im­por­ta che a pen­sar­la così siano anche al­cu­ni fra gli stes­si ex-gio­va­ni dei primi ’70, quel­lo che pre­va­le è che me­dia­men­te qual­sia­si grup­po de­ri­va­ti­vo punk, sia degno di so­prav­vi­ve­re sem­pre e co­mun­que a qual­sia­si grup­po de­ri­va­ti­vo prog. La sto­ria deve sem­pre ri­pe­ter­si. L’e­po­pea di quel­l’e­ra deve es­se­re (con­si­de­ra­ta) ter­mi­na­ta, per prin­ci­pio e in virtù di un fine par­ti­ta apo­ca­lit­ti­co. Per­so­nal­men­te ri­ten­go che i ri­sul­ta­ti più av­vin­cen­ti (per il cer­vel­lo, per il cuore e per la sto­ria della mu­si­ca tutta) ab­bia­no avuto luogo pro­prio quan­do al­cu­ne for­ma­zio­ni – This Heat e Car­diacs sono i nomi a me più cari – hanno smes­so di ra­gio­na­re per di­co­to­mie dando il via ad az­zar­di acu­tis­si­mi che ma­ga­ri non hanno pa­ga­to com­mer­cial­men­te, ma che hanno ri­ful­so con paz­zoi­di e ne­ces­sa­ri lampi di genio.
Men­tre resta solo una teo­ria non con­fer­ma­ta, il fatto che colui che fu il leder dei Por­cu­pi­ne Tree, forse vista l’i­nu­ti­li­tà degli sfor­zi nel cer­ca­re di af­fran­car­si da eti­chet­te che ormai gli si erano cu­ci­te sulla pelle, abbia de­ci­so di tor­na­re in quel mare ma­gnum, af­fron­tan­do con inu­si­ta­ta con­sa­pe­vo­lez­za le sue acque pe­ri­co­lo­se, fino a son­dar­lo a pro­fon­di­tà mai rag­giun­te prima. Nel far ciò, l’i­mi­ta­zio­ne degli ar­che­ti­pi non si esau­ri­sce con la ri­pe­ti­zio­ne di mo­del­li, ma trova spazi di ma­no­vra per ri­sta­bi­li­re un rap­por­to, per quan­to pos­si­bi­le, in­con­ta­mi­na­to – quasi “fan­ciul­le­sco” – con la mu­si­ca delle ori­gi­ni, ossia quel­la che gi­ra­va at­tor­no ad un in­tro­ver­so bam­bi­no in­gle­se.
Non nutro dub­bio al­cu­no che i King Crim­son di “The Con­stru­Kc­tion Of Light” (2000) come anche di “The Power To Be­lie­ve” (2003) hanno vis­su­to su ben più di­stan­ti pia­ne­ti, sa­pen­do edi­fi­ca­re – alla fine del loro ar­ti­co­la­to ex­cur­sus so­no­ro – forse la più mo­der­na, al­te­ra­ta, ibri­da­ta ipo­te­si di “mu­si­ca pro­gres­si­va” che qual­sia­si altro ar­ti­sta pro­ve­nien­te da quel­le stes­se lande, e con le stes­se de­ca­di sulle spal­le, abbia mai por­ta­to alla luce: dun­que Wil­son da loro ha ben altro da im­pa­ra­re che il sem­pli­ce sen­tir­si in co­mu­nio­ne di spi­ri­to con il Fripp di oltre qua­ran­ta anni or­so­no. Tut­ta­via lo Ste­ven Wil­son del pre­sen­te – che pur­trop­po non è più l’a­ma­to au­to­re del­l’a­sce­ti­ca magia dei no-man e che in­ge­nuo non lo è di si­cu­ro –  è di fatto oggi, nel se­con­do de­cen­nio del 2000, il più il­lu­stre, abile e scal­tro in­ter­pre­te del pro­gres­si­ve anni ’70, no­no­stan­te ciò co­sti­tui­sca in sé un pa­ra­dos­so. Cer­ta­men­te ri­ma­ne un do­ma­to­re che sa spet­ta­co­lar­men­te de­streg­giar­si con leoni ben ad­de­stra­ti da altri Ma­stri cir­cen­si. Ma sono per­sua­so che quan­to in fu­tu­ro il chi­tar­ri­sta/com­po­si­to­re avrà da of­frir­ci non si esau­ri­rà su que­sto stes­so ter­re­no di gioco.
No­no­stan­te ogni altra con­si­de­ra­zio­ne, il disco, un vero golem so­no­ro pla­sma­to con un’ar­te dalla sa­pien­za an­ti­ca, at­ten­de solo che l’a­scol­ta­to­re (e lui solo), in base alla sua sto­ria e al suo grado di sin­to­nia con la mu­si­ca in esso rap­pre­sen­ta­ta (e non tanto con il suo ar­te­fi­ce), ne de­cre­ti il di­rit­to al­l’e­si­sten­za la­scian­do in­tat­te le let­te­re im­pres­se sulla fron­te di que­sta mi­to­lo­gi­ca crea­tu­ra (“emet”, vita, ve­ri­tà) op­pu­re can­cel­lan­do la vo­ca­le “e” (“met”, morte) e con­se­gnan­do­la alla terra e al­l’o­blio.


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