CON "THE RAVEN THAT REFUSED TO SING" STEVEN WILSON, MENTE DEI PORCUPINE TREE E DI UNA MIRIADE DI PROGETTI PARALLELI, SCRIVE UNA DELLE PAGINE PIU' BELLE DEL PROG-ROCK MODERNO. ODDIO, MODERNO PER MODO DI DIRE...IL DISCO E' UN SALTO INDIETRO DI 40 ANNI, AI SUONI DELLA TRINITA' PROG DEI PRIMI ANNI 70, GENESIS YES E KING CRIMSON. A MIO GIUDIZIO UN CAPOLAVORO, MA NON SOLO MIO COME POTETE LEGGERE NELLA BELLA RECENSIONE CHE SEGUE DI STEFANO FASTI DAL SITO ON LINE "STORIA DELLA MUSICA".
R Recensione
Steven Wilson
The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)
Sempre
più deciso a non disperdere le energie messe in campo nel corso
del suo primo tour da solista, culminato con la pubblicazione
del magistrale documento live "Get All You Deserve", e a non rompere le fila della superlativa line-up che l'ha accompagnato (riconfermati Marco Minnemann alla batteria, Nick Beggs al basso, al Chapman stick e alle voci, Adam Holzman alle tastiere e al piano, Theo Travis
al flauto e al sax; viene lasciato a piedi il solo Niko Tsonev,
mentre al suo posto sale sul bus il più talentuoso chitarrista Guthrie Govan),
Steven Wilson mette subito a frutto le idee sviluppate
durante il suo attuale girovagare in un contesto musicale
decisamente più virtuoso di quanto i Porcupine Tree si siano mai fatti portatori.
Con le canzoni già in tasca, nel giro di pochi giorni di infuocate sessioni in studio a Los Angeles con Alan Parsons (proprio lui) alla regia, "The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)"
ha preso rapidamente forma. Quanto emerge è ancora di più
ascrivibile al Progressive Rock “classicamente inteso”
rispetto a quanto costruito nei due precedenti lavori in
studio: Wilson prende le distanze anche dalle felici
intuizioni trip-hop che pure con convinzione erano affiorate
sia in “Insurgentes” del 2008 che in “Grace For Drowning” del 2011 (rispettivamente i brani Abandoner e Index),
per buttarsi a capofitto nel mare primigenio, collocando le
lancette della macchina del tempo fra il ‘70 e il ‘75 e provando a
dimostrarci quanto quelle coordinate musicali possano
ancora felicemente esprimersi nel presente, una volta
transitate e centrifugate nel suo caleidoscopico
“frullatore cerebrale”. Molto più marginale, rispetto a
quanto accaduto nel precedente opus, il background
Crimsoniano: ma solo perché stavolta la navigazione ha
proceduto su altre rotte, fra quelle tracciate nei Seventies da
altri “capitani coraggiosi”.
Luminol (che avevamo già incontrato in anteprima nel tour dello scorso anno) si apre con un intro classicamente Yes-oriented (basso e cori in grandissimo rilievo), a cui seguono sezioni che odorano, alternativamente, di Caravan, di jazz-rock, di Genesis (di cui nel finale si maneggiano le stesse atmosfere solenni di Watcher Of The Skies),
per concludersi in una apoteosi prog, con strati spessissimi
di Mellotron (ciò che sentite è prodotto da quello che Robert
Fripp custodisce nella sua dimora), fantasmagorici giri di
piano, incursioni di flauto e di sax, mentre una vertigine
ritmica costruisce una scala che ascende verso le alte sfere
celesti. Nella parte centrale, più sommessa, Wilson mette
nuovamente in evidenza la sua passione per i giochi corali che
furono di CSN&Y.
In Drive Home
il mood generale (specialmente nella struttura, nel
ritornello e nel liquido assolo posizionato in chiusura),
ricorda davvero molto da vicino quella Shedmovedon che era su “Lightbulb Sun” dei Porcupine Tree,
anche se qui è tutto più rallentato e avvolgente.
L’introduzione ha un sapore che mescola suggestioni
Genesisiane (o forse bisognerebbe dire Hackettiane) e altre
tipicamente Wilsoniane. Non a caso questo è l’episodio
dell’album più riconducibile a “ballad spaziali” come Stars Die e, in tempi recenti, come Deform To Form A Star (su “Grace For Drowning”). Ad ogni modo Drive Home poteva tranquillamente essere una nuova composizione della sua ex-compagine.
The Holy Drinker: contraddistinto da un incipit davvero ribollente dal sapore molto jazz-prog-rock (sospeso fra Return To Forever, Mahavisnu Orchestra e Henry Cow) con Theo Travis
in vena di ruggenti svisate al sax, si rivela essere il più
“obliquo” brano del lavoro, solcato da cori suggestivi, con Adam
Holzman davvero protagonista al piano elettrico e
all'organo, in particolar modo nella sezione conclusiva. Nel
corso dei suoi dieci minuti tornano alla mente i Deep Purple
d'annata (specialmente quando le danze volgono al termine),
anche se nei frangenti più intricati e magniloquenti a
riecheggiare sono gli ELP.
In The Pin Drop
si ha l’impressione, per l’andamento, per il ricorrente
arpeggio di chitarra e per i cori, che il brano sia stato
modellato su Drown With Me dei Porcupine Tree (presente sul bonus disc di “In Absentia”).
Una sottile malinconia increspa tutta la vena melodia su cui
il pezzo è costruito. Per forza di cose non è l’episodio più
significativo del lavoro.
Con The Watchmaker (12 minuti...) ci troviamo di fronte al pezzo cardinale del lavoro. Ad una parte iniziale dal gusto Genesis (con riferimento particolare a For Absent Friends, anche se è tutto “Nursery Cryme”
del 1971 ad essere preso come punto di riferimento), molto
malinconica ed evanescente, segue una parte dove Wilson ci va
giù pesante nella citazione dei Pink Floyd. In questo frangente, si ricalcano davvero troppo fedelmente sia Shine On You Crazy Diamond Pt.V (al sopraggiungere dell’assolo di sax), sia il magmatico intermezzo strumentale di Money.
Successivamente il piano prende il sopravvento e le voci
(sempre molto in stile West Coast, se non addirittura in odor di Beach Boys
in controluce) si aprono a scenari invasi da un sole
abbacinante. Il finale é tesissimo e punta diritto in
direzione sia dei Van der Graaf Generator, sia dei Genesis di The Fountain Of Salmacis.
A questo punto viene da pensare che la title-track possa
costituire il momento più “originale” dell’intero disco,
anche se in essa si rinvengono le caratteristiche stilistiche
di altre ballatone siderali del repertorio Wilsoniano (Collapse The Light Into Earth
dei Porcupine Tree, ma anche il pezzo che da il titolo all’abum
dell’esordio solista). Ad un introspettivo inizio, basato
su ipnotico fraseggio di piano – su cui si erge un canto dalle
modalità non troppo differenti da quelle di Thom Yorke
quando è inarcato sui tasti di ebano e avorio – subentrano gli
archi che “aprono” il brano verso un finale “ascendente” al modo in
cui lo può essere una Awaken o una Starship Trooper degli Yes, tanto per proporre un vago esempio.
Non è dato capire quanto Wilson abbia delegato al nuovo
chitarrista, gli oneri che in passato spettavano a lui: a
giudicare dai video delle sessioni di registrazione messi
on-line sul sito ufficiale, sembra sempre più chiaro che
l’arguto musicista si stia sempre più ritagliando il ruolo di
direttore d’orchestra dei professionisti chiamati a dar voce
alle sue composizioni. Anche perché gli assoli di chitarra sono
divenuti sempre più complessi di quelli che popolavano i
suoi precedenti lavori e dunque, per quanto Wilson sia un
ispirato e preparato strumentista, difficilmente potrebbe
condurre le danze in questi panorami maggiormente protesi al
virtuosismo.
E ora viene il compito più
difficile: dare una quotazione d’insieme ad un album
(eccezionalmente) suonato e composto per soddisfare
qualunque essere umano esiliato da questa terra intorno al 1975
e ritornato solo oggi nel suo pianeta natio. Ricordate il film “Goodbye, Lenin!”
nel quale per non traumatizzare la madre ridestata da un lungo
coma, il figlio si ingegna a ricostruire le location di vita
quotidiana della Berlino prima della caduta del muro? Ecco,
Steven Wilson compie un’operazione pressoché analoga (anche
se con molto meno ironia), realizzando un’opera di rara
precisione nella ricostruzione di un’era musicale e
riuscendoci meglio di chiunque sia cimentato in un simile
sforzo negli ultimi 30 anni. E, sebbene il livello di scrittura
sia comunque molto alto, le citazioni e i riferimenti si
sprecano. E così, a chiunque sia vissuto dei grandi capolavori
degli Anni ’70, in diretta o in differita, risulterà
inizialmente difficile concentrarsi nell’immanente flusso
sonoro, trovandosi a rincorrere i tanti echi che ad ogni piega
si rivelano all’ascolto. Tutti coloro che invece, per la
giovane età ma anche per altre ragioni, non siano così avvezzi con
quel mondo e abbiano voglia di attraversarlo, allora oggi
scopriranno di avere a disposizione una aggiornatissima
mappa per guidarli nell’impresa. La malia di “The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)”
è talmente ben ordita da insinuarsi, anche al di là di ogni
reticenza, di ogni ragionevole dubbio: così pur essendo
tangibili i limiti creativi di un album siffatto, il suo
“meraviglioso peso” tende a rivelarsi un fardello di cui è
godurioso farsi carico. Nei momenti in cui ci si abbandona
alla forza evocativa e alla fascinazione di questo “sunto
(incompleto) della storia del prog”, remore e incertezze
sembrano dissolversi. Ma anche sottraendo le orecchie al canto
delle sirene, la valutazione del disco non può essere
penalizzata riconducendo il tutto a mera suggestione o a
semplice nostalgia.
Ricordare quante
volte fra fine Anni ’90 e inizio Anni 2000 Wilson si é prodigato
nel mettere in guardia i suoi fan delle operazioni tese a
restaurare pedissequamente l’era del prog e della psichedelia
(in parte abiurando anche ciò che avevano fatto i Porcupine Tree
di “The Sky Moves Sideways”), spingendoli
a guardare avanti, induce ad esporre le odierne scelte del
compositore inglese ad una pletora di interpretazioni
(alcune delle quali non molto indulgenti), tenendo in
considerazione che ormai è anche divenuto il guru indiscusso
dei mix 5.1, offrendo i suoi servigi a King Crimson, ELP,
Caravan, Jethro Tull che hanno affidato a lui il “restauro” dei
loro grandi capolavori.
Le
esortazioni dello Steven Wilson trentenne probabilmente
originavano dai timori di vedere annullata o anche solo
ridimensionata la propria poliedrica valenza artistica
(che perseguiva attraverso progetti anche decisamente poco
consonanti fra loro: Bass Communion, I.E.M., no-man...),
alla luce di una inclinazione passatista; timori
verosimilmente avvalorati da una serie di atteggiamenti ben
riscontrabili nelle tribune della musica indie, oggi come
dieci, venti o trenta anni fa. Ho spesso potuto constatare – e
come l’ho fatto io, l’avrà senz’altro fatto Wilson – quanto
ferocemente vengano attaccati gli artisti che si
arrischiano nel revival progressivo, rispetto ai tanti che, a
partire da terreni poveri di humus compositivo, riescono a
costruire altisonanti carriere di agricoltori sonori
completamente all’ombra di alberi non meno secolari
annaffiati di new-wave, elettronica, post-punk, industrial,
black music, folk (americano o inglese). Eppure, in qualche
misura, sembra sempre che chiunque si impegni – con intenzioni
più o meno sincere – a ridare nuove prospettive di espressione
alla stagione d’oro del Prog sia da squalificare a
prescindere, riconducendo l’operazione all’edificazione
di un tronfio “Jurassic Park”, rispetto alla genuinità dei
“giardini d’infanzia” allestiti dalle band di grido che ci
vengono segnalate dai siti “bene” dell’Inghilterra che conta.
Penso che l’era dei grandi mastodonti del prog (non tutti
inclini ad adattarsi alle mutazioni ambientali),
ultimatasi con il cataclisma causato dal meteorite punk,
abbia spianato la strada alla congettura comunemente
condivisa che chiunque torni ad assumere le sembianze di
quegli arcaici e caracollanti esseri, meriti – oggi come
allora – un analogo “abbattimento culturale”: e poco
importa che a pensarla così siano anche alcuni fra gli stessi
ex-giovani dei primi ’70, quello che prevale è che mediamente
qualsiasi gruppo derivativo punk, sia degno di sopravvivere
sempre e comunque a qualsiasi gruppo derivativo prog. La
storia deve sempre ripetersi. L’epopea di quell’era deve
essere (considerata) terminata, per principio e in virtù di
un fine partita apocalittico. Personalmente ritengo che i
risultati più avvincenti (per il cervello, per il cuore e per la
storia della musica tutta) abbiano avuto luogo proprio quando
alcune formazioni – This Heat e Cardiacs sono
i nomi a me più cari – hanno smesso di ragionare per dicotomie
dando il via ad azzardi acutissimi che magari non hanno pagato
commercialmente, ma che hanno rifulso con pazzoidi e
necessari lampi di genio.
Mentre resta
solo una teoria non confermata, il fatto che colui che fu il leder
dei Porcupine Tree, forse vista l’inutilità degli sforzi nel
cercare di affrancarsi da etichette che ormai gli si erano
cucite sulla pelle, abbia deciso di tornare in quel mare magnum,
affrontando con inusitata consapevolezza le sue acque
pericolose, fino a sondarlo a profondità mai raggiunte prima.
Nel far ciò, l’imitazione degli archetipi non si esaurisce con
la ripetizione di modelli, ma trova spazi di manovra per
ristabilire un rapporto, per quanto possibile,
incontaminato – quasi “fanciullesco” – con la musica delle
origini, ossia quella che girava attorno ad un introverso
bambino inglese.
Non nutro dubbio alcuno che i King Crimson di “The ConstruKction Of Light” (2000) come anche di “The Power To Believe”
(2003) hanno vissuto su ben più distanti pianeti, sapendo
edificare – alla fine del loro articolato excursus sonoro –
forse la più moderna, alterata, ibridata ipotesi di “musica
progressiva” che qualsiasi altro artista proveniente da
quelle stesse lande, e con le stesse decadi sulle spalle, abbia
mai portato alla luce: dunque Wilson da loro ha ben altro da
imparare che il semplice sentirsi in comunione di spirito
con il Fripp di oltre quaranta anni orsono. Tuttavia lo Steven
Wilson del presente – che purtroppo non è più l’amato autore
dell’ascetica magia dei no-man
e che ingenuo non lo è di sicuro – è di fatto oggi, nel secondo
decennio del 2000, il più illustre, abile e scaltro interprete
del progressive anni ’70, nonostante ciò costituisca in sé un
paradosso. Certamente rimane un domatore che sa
spettacolarmente destreggiarsi con leoni ben addestrati da
altri Mastri circensi. Ma sono persuaso che quanto in futuro il
chitarrista/compositore avrà da offrirci non si esaurirà su
questo stesso terreno di gioco.
Nonostante ogni altra considerazione, il disco, un vero golem
sonoro plasmato con un’arte dalla sapienza antica, attende
solo che l’ascoltatore (e lui solo), in base alla sua storia e al
suo grado di sintonia con la musica in esso rappresentata (e non
tanto con il suo artefice), ne decreti il diritto
all’esistenza lasciando intatte le lettere impresse sulla
fronte di questa mitologica creatura (“emet”, vita, verità) oppure cancellando la vocale “e” (“met”, morte) e consegnandola alla terra e all’oblio.
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