17 settembre 2011

Other Lives - Tamer Animals - La recensione di Ondarock

 OTHER LIVES

Tamer Animals
(Tbd) 2011
chamber-pop


Solitary motion in the wake of an avalanche
Deer in the headlights, there goes a weaker one
I was listenin to Facades, I don't care enough to see the way
Do you hear the silence, I was far too late.
da "Tamer Animals"

È un'inspiegabile violenza, quella che a volte sorge dalle note di "Tamer Animals". Un disco che non tenta di ragionare, che non prova a ricondurre i movimenti delle tempeste di sabbia dell'Oklahoma - loro terra natìa - alle leggi fisiche della turbolenza e del trasporto di particelle solide. Puramente contemplativo, il rituale degli Other Lives si sviluppa seguendo sottili increspature di temi, di pianoforte e chitarra, a volte quasi ossessivi, evocando lunghe notti della Ragione attraverso il rifiuto di strutture e convenzioni musicali.
Questa è la portata del secondo disco della band di Stillwater, la quale, dopo il relativo successo dell'esordio, torna attraverso la Tbd con un disco messo a punto nell'arco di ben sedici mesi di instancabile lavoro, una canzone dopo l'altra, affastellata come nella progressiva composizione di una guglia gotica.

Davvero sorprendente la scelta degli Other Lives di gettarsi anima e corpo nella costruzione di un disco ben più radicale del precedente, che comunque aveva dalla sua diversi pezzi pop ben riconoscibili, seppur dilatati ed espansi dalla vena "orchestrale" della band. Virgolette non necessarie per questo "Tamer Animals", che, fin dall'iniziale duetto di fiati e archi (geniale la danza di intrecci) di "Dark Horse", tradisce l'ossessione di Jesse Tabish, principale compositore del gruppo, per la musica di Philip Glass, che qualcuno avrà già riconosciuto nel testo sopra citato e saprà divertirsi a ritrovare per tutto il disco, in una forma o nell'altra. Non manca ovviamente qualche traccia più morriconiana, "Old Statues" e "Desert" su tutte (con Joey Waronker, batterista di
Beck, che ancora mette la sua esperienza nel vibrante, spazioso apparato percussivo del disco).

Confermano ancora, se ce ne fosse bisogno, la necessità di una certa scena musicale indipendente di rivendicare la propria libertà d'espressione (tracce prog in "As I Lay My Head Down"), riuscendo in questo modo a sconfiggere sia l'integralismo del "prodotto" melodico che l'estetica, ormai superata, del lo-fi a tutti i costi. Non si cerca più il ritiro materiale e spirituale della propria cameretta, ma, pur nell'isolamento forzato (o no) dai mezzi quotidiani, si tenta di disegnare, attraverso la propria visione, il mondo o una parte di esso. È così che si crea il poderoso ralenti di "Dustbowl III", in cui le forze naturali si scatenano in una progressione che ricorda le più strumentali e cinematiche canzoni dei Kunek, identità precedente degli Other Lives, interrotta dopo il solo "Flight Of The Flynns".

Va detto, a scanso di equivoci: non è che le canzoni di "Tamer Animals" non riescano a soddisfare criteri di classificazione più "classica". Semplicemente li aggirano, incastonando in "For 12" l'etereo di un
Bon Iver e una costruzione un po' Fleet Foxes, tornando alla carica con la melodia monolitica della title track, un eterno impasse pianistico, teso allo spasimo fino alla brusca interruzione finale. Anche nelle tracce più cariche di orchestrazioni ("Woodwind Loop" o "Landforms") tutto suona naturale e mai sopra le righe, nonostante le intersezioni di flauto, corni, violini, l'importanza del contributo batteristico.
Sfugge e conquista "Tamer Animals": in questa interminabile guerriglia di sensazioni emerge in fondo la smania tangibile di Tabish e degli Other Lives per la traduzione in musica di ciò che è grande.




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