Dopo i corsi accademici nel prestigioso Berklee College Of Music e l'apprendistato nelle file dei Polyphonic Spree e della piccola comune live di Sufjan Stevens, Annie Clark ha dato una svolta alla propria giovane carriera nel 2007, con la pubblicazione, a nome St. Vincent, del suo album manifesto e rivelazione "Marry Me". Un progetto che ha ribadito tutte le sue potenzialità e i suoi enormi margini espressivi col successivo "Actor", incoronando l'autrice con un successo di critica e pubblico di dimensioni ragguardevoli (ne fa fede anche il novantesimo posto a Billboard), considerata l'estrazione indie e l'estrema ricercatezza della sua proposta musicale.
Il completamento di questa ideale trilogia è affidato a "Strange Mercy", opera che risente fortemente dell'impronta del suo predecessore, ma sottolinea ancora di più il contrasto tra l'architettura pop barocca e broadwayana e il substrato arty e post-punk, sia nella scrittura che negli arrangiamenti.
Accompagnata, fra gli altri, da musicisti di grande levatura come Bobby Sparks (moog, clavinet, wurlitzer), il batterista dei Midlake Mackenzie Smith, il violinista Daniel Hart, il tastierista Brian LeBarton (già fondamentale collaboratore dell'ultimo Beck), la Clark pone l'accento sui valori di produzione (i suoni più elaborati, sintetici, stratificati, la voce spesso rarefatta e schermata), sempre affidata a John Congleton, e sull'incidenza delle chitarre, in un tripudio di effetti e distorsioni che non scade mai nel gratuito, e dei contrappunti elettronici (groove, beat, drum machine).
L'originalità dei brani e la qualità degli spunti di melodici, d'altronde, sembrano ancora una volta perfettamente in grado di reggere l'ambizioso lavoro sulla sovrastruttura. Come chiarisce subito l'opener "Chloe In The Afternoon", a tratti bjorkiana nel giocare sulle dissonanze fra il cantato acuto, le chitarre spigolose, i pattern di synth e i battiti irregolari. Sui groove elettronici puntano forte anche "Cruel", con un giro quasi disco-wave su cui la Clark cesella flautata e solenne nel ritornello, e "Historical Strenght" nel suo palpitante barocchismo sintetico. Viceversa, l'uso sperimentale delle chitarre la fa da padrone in "Northern Lights" (scabre e asperse di ruggine prima del crescendo finale) e nella bellissima "Surgeon", coi melismi della prima parte, ariosa e melodica, che si fa via via più febbricitante fino a incendiarsi nella coda stordente e allucinata, quasi krauta.
E se "Cheerleader" alterna l'amarezza impalpabile della strofa con gli staccati falcianti del ritornello, "Neutered Fruit" si distende su un mood simil-lounge/downtempo, vivacizzato da fantasmagorie vocali e strie corali. Sul versante più classicheggiante fanno bella mostra di sé brani come la title track crepuscolare e sussurrata (a parte gli equilibrismi del chorus), la chitarra liquida e notturna, la drum machine che punteggia, il romanticismo elegiaco di "Champagne Year", attraversata da cortine di moog e rivoli di bleep elettronici, "Dilettante" che comincia come un'aria alla Andrew Lloyd Webber e viene poi straniata e perturbata dalla ritmica minimale e dalle chitarre sature, la teatralità orientale e le evanescenze orchestrali di "Year Of The Tiger".
Con "Strange Mercy" St. Vincent conferma lo spessore della sua ricerca musicale e una costante maturazione dal punto di vista della composizione, anche se, pur in un quadro complessivo di grande apprezzamento, col passare del tempo (e degli ascolti) emerge un po' di nostalgia per la freschezza obliqua e un po' naif degli esordi. Va detto, però, che è un dettaglio che può facilmente passare in secondo piano.
Il completamento di questa ideale trilogia è affidato a "Strange Mercy", opera che risente fortemente dell'impronta del suo predecessore, ma sottolinea ancora di più il contrasto tra l'architettura pop barocca e broadwayana e il substrato arty e post-punk, sia nella scrittura che negli arrangiamenti.
Accompagnata, fra gli altri, da musicisti di grande levatura come Bobby Sparks (moog, clavinet, wurlitzer), il batterista dei Midlake Mackenzie Smith, il violinista Daniel Hart, il tastierista Brian LeBarton (già fondamentale collaboratore dell'ultimo Beck), la Clark pone l'accento sui valori di produzione (i suoni più elaborati, sintetici, stratificati, la voce spesso rarefatta e schermata), sempre affidata a John Congleton, e sull'incidenza delle chitarre, in un tripudio di effetti e distorsioni che non scade mai nel gratuito, e dei contrappunti elettronici (groove, beat, drum machine).
L'originalità dei brani e la qualità degli spunti di melodici, d'altronde, sembrano ancora una volta perfettamente in grado di reggere l'ambizioso lavoro sulla sovrastruttura. Come chiarisce subito l'opener "Chloe In The Afternoon", a tratti bjorkiana nel giocare sulle dissonanze fra il cantato acuto, le chitarre spigolose, i pattern di synth e i battiti irregolari. Sui groove elettronici puntano forte anche "Cruel", con un giro quasi disco-wave su cui la Clark cesella flautata e solenne nel ritornello, e "Historical Strenght" nel suo palpitante barocchismo sintetico. Viceversa, l'uso sperimentale delle chitarre la fa da padrone in "Northern Lights" (scabre e asperse di ruggine prima del crescendo finale) e nella bellissima "Surgeon", coi melismi della prima parte, ariosa e melodica, che si fa via via più febbricitante fino a incendiarsi nella coda stordente e allucinata, quasi krauta.
E se "Cheerleader" alterna l'amarezza impalpabile della strofa con gli staccati falcianti del ritornello, "Neutered Fruit" si distende su un mood simil-lounge/downtempo, vivacizzato da fantasmagorie vocali e strie corali. Sul versante più classicheggiante fanno bella mostra di sé brani come la title track crepuscolare e sussurrata (a parte gli equilibrismi del chorus), la chitarra liquida e notturna, la drum machine che punteggia, il romanticismo elegiaco di "Champagne Year", attraversata da cortine di moog e rivoli di bleep elettronici, "Dilettante" che comincia come un'aria alla Andrew Lloyd Webber e viene poi straniata e perturbata dalla ritmica minimale e dalle chitarre sature, la teatralità orientale e le evanescenze orchestrali di "Year Of The Tiger".
Con "Strange Mercy" St. Vincent conferma lo spessore della sua ricerca musicale e una costante maturazione dal punto di vista della composizione, anche se, pur in un quadro complessivo di grande apprezzamento, col passare del tempo (e degli ascolti) emerge un po' di nostalgia per la freschezza obliqua e un po' naif degli esordi. Va detto, però, che è un dettaglio che può facilmente passare in secondo piano.
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