1 giugno 2012

NEIL YOUNG "AMERICANA"

"AMERICANA"
è l'ultima fatica del grandissimo
NEIL YOUNG
ed esce martedì 5 giugno.
Ecco la recensione del disco fatta 
da "rockol.it"



Non ci sono dubbi sul genuino sentimento patriottico di un vecchio hippie come Neil Young, che in celebrazione del Memorial Day americano, l'altro ieri, affidava l'apertura del suo sito Internet ad "America the beautiful" nella versione registrata per il suo controverso disco di protesta "Living with war" (2006). Il nuovo "Americana", antologia di canzoni popolari radicate nella tradizione della confederazione (ma anche di antica origine britannica, e persino scandinava) riparte da lì, o forse da molto più indietro: ad esempio dalla sferragliante "Farmer John" di Don and Dewey e da quell'album del 1990, "Ragged glory", inciso con i Crazy Horse che qui tornano al gran completo a sedici anni di distanza da "Broken arrow" ("Greendale", nel 2003, faceva a meno dell'apporto del chitarrista Frank "Poncho" Sampedro, che si riunì alla gang in occasione del tour successivo).
Chi conosce il suono sporco, polveroso e "rugginoso" di quella band sa che cosa aspettarsi: folk rock corretto garage, un vecchio motore a scoppio incrostato e sputacchiante che ci mette il suo tempo a ingranare (gli accordi e i suoni di assestamento che aprono il disco) e poi si mette a macinare chilometri (gli implacabili otto minuti di "Tom Dula", quasi una jam psichedelica). Che Young abbia deciso di tirar fuori l'artiglieria pesante per rileggere canzoni che appartengono ai suoi (e in parte anche nostri) ricordi d'infanzia la dice lunga sul suo amore per il rock and roll e sul suo spirito, anche involontariamente, anticonformista. "Oh Susannah", "Clementine" e "God save the queen" (proprio l'inno inglese, che qui trova accoglienza perché parte della cultura fondante della nazione americana ) sono come non le avete mai ascoltate prima: squassate da lancinanti chitarre in feedback e da ritmi tambureggianti che più che a filastrocche da saggio scolastico fanno pensare a "Down by the river" e a "Cortez the killer", a dispetto di qualche contrappunto corale (un tratto ricorrente dell'ultima produzione) e di testi piantati nell'immaginario collettivo, adattati - secondo il più consueto e ortodosso dei processi di rigenerazione della musica folk - a melodie create ex nove o pescate in qualche altro serbatoio (e pazienza se non sempre l'accostamento è convincente).
Neil e i suoi desperados riconoscono e accreditano le loro fonti di ispirazione, Odetta e Tim Rose, Burl Ives e Billy Ed Wheeler, ma anche gli Squires con cui nel 1963 il canadese appena diciottenne muoveva i primi incerti passi nel music business. E sembrano divertirsi un mondo a scompaginare le carte seguendo l'intuizione del momento: ascoltateli conversare e ridacchiare in coda a quelle takes che immaginiamo da "buona la prima", sentite Neil commentare compiaciuto la buona riuscita del groove inedito scovato per "Oh Susannah".
Molta parte di quel repertorio è noto ai fan del folk, del rock e del folk-rock: ognuno ricorderà una sua versione di "Wayfarin' stranger" e di "This land is your land" (il classicissimo di Woody Guthrie è forse il pezzo più prevedibile della raccolta), molti avranno impressa in mente la "Gallows pole" dei Led Zeppelin del terzo album e qualcuno rammenterà la "High flyin' bird" dei Jefferson Airplane immortalata anche dalla cinepresa di D.A. Pennebaker per "Monterey Pop". Beh, scordatevele, perché qui siamo su un altro piano: i Crazy Horse sono al tempo stesso più tradizionalisti e più iconoclasti, quel materiale lo rispettano e al tempo stesso lo maltrattano con assoluta noncuranza. Recuperano gli aspetti più sinistri e inquietanti di nenie apparentemente innocue ("Clementine", storia di un amore paterno o passionale?), affondano il coltello nella piaga di tenebrose murder ballads (un classico del folk, il genere più sanguinolento della storia della musica), snocciolano riff e cori ossessivi ("Oh Susannah", "Tom Dula"), e poi riesumano vecchi spiritual ("Jesus' chariot"), cavalli di battaglia della musica country ("Travel on" di Billy Wayne Grammer) e hits doo woop di fine anni Cinquanta ("Get a job" numero uno per i Silhouettes nel '58), reclutando le voci di Pegi Young e di Stephen Stills per la rilettura di "This land is your land".


Sono canzoni che "rappresentano un'America che potrebbe non esistere ancora molto a lungo", ma che spesso, a duecento anni di distanza, conservano un'attualità scioccante. Young non le accosta con lo spirito dell'archeomusicologo, ma con quello sfrontato candore punk che è connaturato alla sua persona. Per rivisitare, una volta ancora, la Vecchia America dei bisonti e delle praterie, della frontiera, della ferrovia e dei pellerossa che difendono la terra dall'uomo bianco, mettendosi dalla parte di chi sta per soccombere. Cavalcando una Locomobile al posto del puledro (nella suggestiva immagine di copertina, uno scatto del 1975 in cui la sua faccia e quelle dei Crazy Horse sono sovraimposte a una foto di Geronimo di settant'anni prima), sostituendo arco e frecce con una chitarra/carabina che spara ancora riff a ripetizione. Sulla scena rock è rimasto l'ultimo degli Apache, un'icona vivente che ricorda all'America il suo passato e il suo presente, le glorie e gli orrori, i suoi inferni e i suoi paradisi terrestri. Un epigono di Frederic Remington e di Ansel Adams, capace di ritrarre i grandi paesaggi e la psiche di una nazione come pochi altri, con un tocco naif, nostalgico e immancabilmente struggente.

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