Lo diceva nientemeno che Michelangelo: l'arte è svelare la bellezza, scavare la pietra per liberare l'immagine che racchiude. Jeff Tweedy gli fa (più modestamente) eco a proposito della musica degli Wilco: "Gli scultori eschimesi prendono un pezzo di pietra e cominciano a lavorarlo senza sapere che animale contenga. Finché a un certo punto gli diventa evidente che stanno facendo un tricheco o un caribù. Quello che cerco di descrivere è una cosa del genere: ti perdi lungo il processo creativo e all'improvviso qualcosa comincia ad emergere".
Potremmo chiamarla l'"arte del quasi", come il titolo del brano che fa da prologo a "The Whole Love": un continuo tendere alla bellezza per approssimazioni progressive. A volte capita di avvicinarsi all'assoluto, come nei momenti di grazia di "Yankee Hotel Foxtrot" e "A Ghost Is Born". A volte può succedere di perdersi nell'azzurro del cielo o di fermarsi a giocare con le gobbe di un cammello. Ma quello che conta è sempre la tensione ideale, perché quando si parte da una formula o da una ricetta si è già nell'anticamera della maniera.
Da una band come gli Wilco non c'è più niente da aspettarsi, si dice in giro. Soprattutto tra le fila dei più fieri detrattori di "Wilco (The Album)". L'accoglienza riservata a "The Whole Love" sembra però smentire le profezie di pensionamento anticipato. Spesso cadendo nell'eccesso opposto e finendo per dimenticare i punti di contatto tra due dischi che preferiscono entrambi le sfaccettature al marmo grezzo. C'è un punto, però, su cui non è difficile concordare: "The Whole Love" è il capitolo più solido della band americana dai tempi di "A Ghost Is Born".
Nei dischi degli Wilco, a detta di Tweedy, il primo brano ha la reputazione di essere quasi sempre quello che definisce le coordinate. Proprio per questo, l'inizio di "The Whole Love", affidato ad "Art Of Almost", ha l'intento più o meno dichiarato di confondere le idee: un flettersi di pulsazioni più radioheadiane che mai, che si dispiegano su vapori di mellotron fino a deragliare nella più classica sfuriata elettrica di Nels Cline. "Una sorta di canzone atmosferica come si potrebbe sentire in "Tonight's The Night" di Neil Young", la definisce Tweedy, giocando più sulla suggestione che non sulla lettera. Spiazzante, sì, ma fino a un certo punto, visto che quantomeno dai tempi di "Spiders (Kidsmoke)" è ormai una consuetudine per gli Wilco inserire nei loro album un brano dallo spirito più audace. Un episodio isolato, insomma, un incastro concettuale che rimanda alle geometrie della copertina di Joanne Greenbaum.
Tocca allora al primo singolo, "I Might", dettare il clima del disco, con una sarabanda di chitarre e tastiere in cui fa capolino addirittura un sample di "T.V. Eye" degli Stooges: "Avrei voluto riuscire a cantare "brother" come Iggy Pop", spiega Tweedy, "ma visto che non ce l'ho fatta abbiamo chiamato la cavalleria". Quel senso di leggerezza che faceva levitare i brani di "Yankee Hotel Foxtrot" incontra il gusto della melodia di "Summerteeth", ed ecco sbocciare il power-pop a colori sgargianti di "Born Alone" e "Dawned On Me". L'aria si fa più solare ("Get Well Soon Everybody", non a caso, era il primo titolo ipotizzato per l'album) e persino i chitarrismi firmati Nels Cline mostrano di saper trovare un nuovo equilibrio.
Ma "The Whole Love", chiamato a inaugurare l'etichetta discografica appena fondata dagli Wilco, è un disco dall'anima duplice. Un disco pensato in origine come un doppio album, o addirittura come una coppia di album gemelli: "uno più languido, una sorta di country-folk atmosferico, l'altro molto più esuberante". Così, "Rising Red Lung" si srotola su un picking delicato, mentre il sipario di archi di "Black Moon" acquista il senso drammatico di certe pagine del Beck di "Sea Change".
A fare da collante è un ecumenismo pop capace di conciliare il senso estatico di "Sunloathe" (Brian Wilson sognato con gli occhi di Jason Lytle) e la svagatezza ragtime di "Capitol City". Certo, "The Whole Love" non sfugge ai momenti risaputi, come nella ruvidezza chiassosa di "Standing O". Ma il punto nevralgico del disco è alla fine, nei dodici minuti ipnotici di "One Sunday Morning (Song For Jane Smiley's Boyfriend)". L'ispirazione, come suggerisce il titolo, viene da una conversazione con il compagno della scrittrice californiana Jane Smiley. Ma il respiro delle parole è universale: un padre, un figlio e il dramma del loro rapporto. Cercando il segreto di quella faticosa comunicazione di sé chiamata paternità: non l'imposizione di un'idea, ma un'instancabile introduzione alla realtà. "What I learned without knowing / How much more I owe than I can give".
La vocazione cantautorale di Tweedy non si era mai intrecciata così intimamente con l'intraprendenza dei suoi compagni d'avventura come in questo lungo commiato. Un dipanarsi di sussurri in cui ogni strofa rivela una nuova tessitura: ora accarezzata dal pianoforte, ora venata di arpeggi, ora punteggiata di glockenspiel, con un tono crepuscolare che evoca le ombre degli Yo La Tengo di "And Then Nothing Turned Itself Inside-Out". "Più suonavamo", racconta Tweedy, "più sembrava che qualche incantesimo fosse stato lanciato. Sentivamo semplicemente di stare partecipando a qualcosa di meraviglioso. Uno di quei momenti per cui vive un musicista, in cui ogni cosa scompare e ci si si trova radicati nell'istante". Il fraseggio, alla fine, si dissolve sospeso. Ma potrebbe anche durare per sempre. L'eternità è nell'istante.
Potremmo chiamarla l'"arte del quasi", come il titolo del brano che fa da prologo a "The Whole Love": un continuo tendere alla bellezza per approssimazioni progressive. A volte capita di avvicinarsi all'assoluto, come nei momenti di grazia di "Yankee Hotel Foxtrot" e "A Ghost Is Born". A volte può succedere di perdersi nell'azzurro del cielo o di fermarsi a giocare con le gobbe di un cammello. Ma quello che conta è sempre la tensione ideale, perché quando si parte da una formula o da una ricetta si è già nell'anticamera della maniera.
Da una band come gli Wilco non c'è più niente da aspettarsi, si dice in giro. Soprattutto tra le fila dei più fieri detrattori di "Wilco (The Album)". L'accoglienza riservata a "The Whole Love" sembra però smentire le profezie di pensionamento anticipato. Spesso cadendo nell'eccesso opposto e finendo per dimenticare i punti di contatto tra due dischi che preferiscono entrambi le sfaccettature al marmo grezzo. C'è un punto, però, su cui non è difficile concordare: "The Whole Love" è il capitolo più solido della band americana dai tempi di "A Ghost Is Born".
Nei dischi degli Wilco, a detta di Tweedy, il primo brano ha la reputazione di essere quasi sempre quello che definisce le coordinate. Proprio per questo, l'inizio di "The Whole Love", affidato ad "Art Of Almost", ha l'intento più o meno dichiarato di confondere le idee: un flettersi di pulsazioni più radioheadiane che mai, che si dispiegano su vapori di mellotron fino a deragliare nella più classica sfuriata elettrica di Nels Cline. "Una sorta di canzone atmosferica come si potrebbe sentire in "Tonight's The Night" di Neil Young", la definisce Tweedy, giocando più sulla suggestione che non sulla lettera. Spiazzante, sì, ma fino a un certo punto, visto che quantomeno dai tempi di "Spiders (Kidsmoke)" è ormai una consuetudine per gli Wilco inserire nei loro album un brano dallo spirito più audace. Un episodio isolato, insomma, un incastro concettuale che rimanda alle geometrie della copertina di Joanne Greenbaum.
Tocca allora al primo singolo, "I Might", dettare il clima del disco, con una sarabanda di chitarre e tastiere in cui fa capolino addirittura un sample di "T.V. Eye" degli Stooges: "Avrei voluto riuscire a cantare "brother" come Iggy Pop", spiega Tweedy, "ma visto che non ce l'ho fatta abbiamo chiamato la cavalleria". Quel senso di leggerezza che faceva levitare i brani di "Yankee Hotel Foxtrot" incontra il gusto della melodia di "Summerteeth", ed ecco sbocciare il power-pop a colori sgargianti di "Born Alone" e "Dawned On Me". L'aria si fa più solare ("Get Well Soon Everybody", non a caso, era il primo titolo ipotizzato per l'album) e persino i chitarrismi firmati Nels Cline mostrano di saper trovare un nuovo equilibrio.
Ma "The Whole Love", chiamato a inaugurare l'etichetta discografica appena fondata dagli Wilco, è un disco dall'anima duplice. Un disco pensato in origine come un doppio album, o addirittura come una coppia di album gemelli: "uno più languido, una sorta di country-folk atmosferico, l'altro molto più esuberante". Così, "Rising Red Lung" si srotola su un picking delicato, mentre il sipario di archi di "Black Moon" acquista il senso drammatico di certe pagine del Beck di "Sea Change".
A fare da collante è un ecumenismo pop capace di conciliare il senso estatico di "Sunloathe" (Brian Wilson sognato con gli occhi di Jason Lytle) e la svagatezza ragtime di "Capitol City". Certo, "The Whole Love" non sfugge ai momenti risaputi, come nella ruvidezza chiassosa di "Standing O". Ma il punto nevralgico del disco è alla fine, nei dodici minuti ipnotici di "One Sunday Morning (Song For Jane Smiley's Boyfriend)". L'ispirazione, come suggerisce il titolo, viene da una conversazione con il compagno della scrittrice californiana Jane Smiley. Ma il respiro delle parole è universale: un padre, un figlio e il dramma del loro rapporto. Cercando il segreto di quella faticosa comunicazione di sé chiamata paternità: non l'imposizione di un'idea, ma un'instancabile introduzione alla realtà. "What I learned without knowing / How much more I owe than I can give".
La vocazione cantautorale di Tweedy non si era mai intrecciata così intimamente con l'intraprendenza dei suoi compagni d'avventura come in questo lungo commiato. Un dipanarsi di sussurri in cui ogni strofa rivela una nuova tessitura: ora accarezzata dal pianoforte, ora venata di arpeggi, ora punteggiata di glockenspiel, con un tono crepuscolare che evoca le ombre degli Yo La Tengo di "And Then Nothing Turned Itself Inside-Out". "Più suonavamo", racconta Tweedy, "più sembrava che qualche incantesimo fosse stato lanciato. Sentivamo semplicemente di stare partecipando a qualcosa di meraviglioso. Uno di quei momenti per cui vive un musicista, in cui ogni cosa scompare e ci si si trova radicati nell'istante". Il fraseggio, alla fine, si dissolve sospeso. Ma potrebbe anche durare per sempre. L'eternità è nell'istante.