11 ottobre 2011

Peter Gabriel - New Blood: la recensione di Rockol

Questa è la recensione (pubblicata dal sito rockol.it) di New Blood, l'ultimo lavoro di Peter Gabriel uscito oggi.




Peter Gabriel
NEW BLOOD
Real World/EMI (CD)








Il figlio di ”Scratch my back” è cresciuto, ha messo su qualche muscolo e ora cammina sulle sue gambe. Non è una gran sorpresa, per chi aveva assistito a qualche data del tour di Peter Gabriel transitato da Verona poco più di un anno fa: la seconda parte di quei concerti, dedicata alla rivisitazione in chiave orchestrale del suo repertorio storico, era la più attesa dal pubblico, la più curiosa, la più intrigante.
Bruciato sul tempo dalle rivisitazioni pop-sinfoniche di Sting, Gabriel ha avuto comunque il merito di evitare la trappola del greatest hits infiocchettato e vestito a nuovo. Il suo obiettivo programmatico era di regalare nuova linfa, sangue nuovo, alla sua musica: pescando anche nel back catalog meno noto, e in parte recuperato con il tour del 2007, quando chiese al pubblico di aiutarlo a compilare le scalette indicando i pezzi preferiti. La squadra è la stessa dell’ultimo giro di concerti (la figlia Melanie e la vocalist norvegese Ane Brun, la New Blood Orchestra di 46 elementi diretta da Ben Foster, l’arrangiatore John Metcalfe), identico il concetto del “no drums, no guitars”, analoghi i riferimenti alla musica colta disseminati nelle elegantissime e sobrie partiture, dal classico di Debussy e Stravinskij al contemporaneo di Steve Reich e Arvo Paart. C’è di nuovo, e di bello, che le canzoni di Gabriel (specie quelle di “III” e “IV”, gli album più “dark” e sperimentali della produzione) si prestano bene alle coloriture drammatiche dell’orchestra, ai timbri scuri di ottoni e archi.
Cosicché persino delle percussioni, elemento fondante di quei dischi e dei successivi, non si sente più di tanto la mancanza, tanto più che a generare ritmo, quando occorre, ci pensano il contrabbasso, il pianoforte, un triangolo, il pizzicato e il trillo dei violini. Nel pezzo d’apertura (e capolavoro del disco) “The rhythm of the heat”, i tamburi del Burundi che nell’originale evocavano lo smarrimento e la trance ritmica sperimentata da Carl Gustav Jung venendo a contatto con i riti tribali africani sono rimpiazzati dai tuoni e dai fulmini, dagli squilli e dagli strepiti di un ensemble magistralmente disposto sul campo da Metcalfe: la dinamica è impressionante, il senso di inquietudine e di rapimento è miracolosamente preservato. E per reinventare la tensione e il terrore di “Intruder”, orfana dei suoi sinistri cigolii e del suo drumming martellante, viene in soccorso un arrangiamento che strizza esplicitamente l’occhio a Bernard Herrmann, il geniale compositore newyorkese che firmò le colonne sonore del re del brivido Alfred Hitchcock. Qualcuno potrà sostenere che di puro esercizio di stile si tratta. Ma funziona, soffia aria fresca sui ricordi e regala a certi titoli una classicità maestosa sganciata dal tempo. “Wallflower”, melodica e pianistica, esce meritatamente dall’oblio. “San Jacinto”, ipnotica e ieratica di suo, risplende a partire dall’incipit, con quel fraseggio liquido e impressionistico di pianoforte che sostituisce i gamelan elettronici della versione datata 1982. “Digging in the dirt” dimostra che si può fare rock anche senza strumenti elettrici. “Darkness” guadagna in pathos ciò che perde in violenza, e permette a Gabriel – sempre magistrale nelle interpretazioni vocali - di sfoggiare un timbro quasi waitsiano acquisito con l’invecchiamento.
In “Don’t give up” la voce tremula e lunare della Brun non fa troppo rimpiangere Kate Bush. Mentre ad altre canzoni del best seller “So” ( “Red rain” più di “Mercy street”, che era già perfetta) non fa male liberarsi di certe scorie tipiche delle superproduzioni anni Ottanta. Pochissime variazioni, si diceva, rispetto alle versioni presentate in concerto: “Downside up”, cantata con Melanie, perde il ritornello (“Ovo”), “Solsbury Hill” rinuncia alla citazione dell’ “Inno alla gioia” beethoveniano.
Gabriel ha spiegato di aver ragionato a lungo sulla sequenza, ricomponendo le tessere del puzzle per imbastire una nuova storia. Ascoltando il lungo disco (oltre 77 minuti e mezzo di durata) d’un fiato si capisce il suo punto di vista, e anche perché proprio “Solsbury hill” lo lasciasse perplesso: troppo leggera e spensierata, sosteneva, per un disco di atmosfera intensa come questo. Ha trovato la soluzione aggiungendola come bonus track e facendola precedere da cinque minuti di rumori ambientali catturati sulla omonima collina, a pochi chilometri da Bath e dagli studi Real World di Box che sono il suo quartier generale nonché buen ritiro inglese.
Là dove tutto era (ri)cominciato dopo l’abbandono dei Genesis: un’oasi di verde e di pace, da dove scorgere le luci della città e immaginare un futuro, anche musicale, che (lo ha già anticipato lui stesso) sarà molto diverso da questo presente orchestrale e revisionista.



(Alfredo Marziano)

TRACKLIST:
“The rhythm of the heat”
“Downside up”
“San Jacinto”
“Intruder”
“Wallflower”
“In your eyes”
“Mercy street”
“Red rain”
“Darkness”
“Don’t give up”
“Digging in the dirt”
“The nest that sailed the sky”
“A quiet moment”
“Solsbury hill"








































































Nessun commento:

Posta un commento